Ospita un uomo che non ha mai smesso di camminare. Alfonso Picone Chiodo è scrittore, guida, camminatore. Ma prima di tutto, è una delle anime che negli anni ’80 ha scelto di risalire i crinali dell’Aspromonte, quando la montagna era sinonimo di sequestri e paura, per ridarle un volto nuovo. Anzi, antico. Un volto che oggi torna a parlare attraverso sentieri, rifugi e ospitalità diffusa.

«Erano anni in cui ci sconsigliavano di entrare in Aspromonte», racconta. «I sequestri avevano marchiato l’intera provincia, sembrava che fossimo tutti criminali. Ma fu proprio quella negazione, quell’immagine deformata, a renderla ai nostri occhi più affascinante, più intrigante. Capimmo che la montagna aveva molto da raccontare. E iniziammo a farlo a piedi».

Nacquero così i primi sentieri segnati, tracciati da un gruppo di liceali mossi da curiosità e amore per la propria terra. «Eravamo studenti, ispirati da maestri come Mosino, Minuto, Rillotta. Persone che ci hanno insegnato a guardarci intorno, a esplorare quello che avevamo dietro casa. Camminare diventò un gesto politico. Una forma di resistenza culturale». In un tempo in cui si invocava la militarizzazione della montagna, quei ragazzi tracciavano invece percorsi di libertà. E, con il sostegno di politici lungimiranti come il senatore Sisinio Zito, contribuirono alla nascita del Parco Nazionale dell’Aspromonte nel 1994.

Un passo dopo l’altro, l’Aspromonte cominciava a cambiare pelle: dalla criminalità all’escursionismo, dalla diffidenza alla scoperta. E Picone Chiodo era lì, a ogni bivio. «Ci inventammo esplorazioni in luoghi sconosciuti ai più. L’incontro con la gente fu travolgente. Da nord Italia arrivavano le sezioni del CAI per quello che sembrava una spedizione in Nepal. Dormivano in tenda, senza rifugi né comfort. Ma restavano incantati».

Da lì in avanti, l’evoluzione fu naturale. Prima l’associazione «Gente in Aspromonte», poi una cooperativa vera e propria. La sfida era chiara: trasformare una passione in lavoro, il cammino in impresa, l’identità in risorsa. E i numeri parlano chiaro: oggi sono 5.000-6.000 le presenze annue solo nella vallata della Amendolea, con un’offerta che si estende a tutto il Meridione.

Tra i sentieri simbolo, spicca quello dell’Inglese, ispirato al viaggio del pittore Edward Lear nel 1847. «Fu lui ad adottare l’ospitalità diffusa dormendo nelle case della gente. Lo abbiamo proposto anche noi, partendo da Bova, Staiti, Palizzi. I giovani sistemarono i primi alloggi con interventi minimi, senza supporto pubblico. Ma la chiave non era l’accoglienza in sé. Era l’incontro. Il far capire agli abitanti che il loro patrimonio – la lingua, il cibo, le storie – era valore, non disvalore».

Oggi quella montagna è vissuta, non più solo guardata con sospetto. Si fa torrentismo tra oltre 500 cascate, si pratica sci di fondo, si pedala lungo la Ciclovia dei Parchi. «Cose impensabili allora, quando anche solo camminare faceva storcere il naso. Ma l’Aspromonte è un mondo che non smette mai di stupire. E io, dopo 40 anni, continuo a scoprirlo».

Sul suo blog «L’altro Aspromonte» ha raccolto tutto: pubblicazioni, mappe, toponimi. Un atlante sentimentale che parte dalle radici grecaniche e si allarga fino a Cardeto, Africo, la Bovesia intera. Perché i nomi dei luoghi raccontano la storia dei popoli, e ogni passo può essere un atto di conoscenza.

Ma l’Aspromonte, dice, non è solo natura. È una montagna civile, legata a doppio filo alla costa. «Dà acqua, aria pulita, prodotti agricoli e gastronomici. Se la trascuriamo, paghiamo il prezzo a valle: incendi, dissesto, desertificazione. Ma soprattutto perdiamo memoria e comunità». Per questo non basta viverla la domenica. Va vissuta ogni giorno.

Ecco perché la battaglia di Picone Chiodo non è mai finita. È passata dai piedi alla penna, dalle guide ai blog, dalle escursioni ai libri. L’ultimo è dedicato alla capra dell’Aspromonte, animale simbolo di resistenza e identità. Ma più ancora è un omaggio a chi abita quei luoghi ogni giorno, custodi inconsapevoli di un patrimonio fragile, prezioso, irrinunciabile.