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“Falange armata”, un sistema di potere dietro la sigla del terrore per condizionare lo Stato

‘Ndrangheta stragista, il procuratore Lombardo svela la vera natura della sigla con cui furono rivendicati gli attentati dal 1990 al 1994. Poi ricomparsa nel 2013 per minacciare Riina. E affonda: «Tutto si fermò con la nascita di Forza Italia, ma, per Graviano, Berlusconi è un traditore»

“Falange armata”, un sistema di potere dietro la sigla del terrore per condizionare lo Stato

«Nel sistema in cui Falange armata si inserisce ed opera l’ideologia interessa pochissimo. Escluse altre finalità, rimane una sola possibile finalità: quella altamente e squisitamente politica. Non intesa in senso ideologico, ma espressione di una sordida, inaccettabile, vomitevole lotta per il potere. Questo è. Non c’è altro rispetto all’inquadramento da dare. Le mafie sono componenti di questo sistema di potere». Sono parole pesantissime quelle utilizzate dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo per spiegare, una volta per tutte ed in modo esaustivo, cosa abbia rappresentato la sigla “Falange armata”, utilizzata per rivendicare le stragi continentali, nonché gli agguati ai carabinieri.

La necessità di mantenere un ruolo baricentrico

«Non è una vicenda semplice – rimarca Lombardo – perché le minacce, i depistaggi, la disinformazione, vanno ad incidere sulle alte funzioni degli apparati di governo dello Stato. Non stiamo parlando banalità, ma di una drammatica realtà che va oltre l’esistenza o meno di un contesto associativo che possa essere parificato ad una organizzazione terroristica. C’è uno scopo da raggiungere, non una struttura da formare. Quella c’era ed è quel sistema di cui più volte ho detto nel corso della requisitoria, che non richiedeva né formali affiliazioni, né pungiute, né rituali. C’è gente che deve mantenere inalterato il ruolo baricentrico che ha sempre avuto. In una condizione dalla quale sia possibile determinare le scelte di quelli che sono gli organi di governo di questa nazione. Per quello che è l’altissimo progetto che è stato portato avanti, costituire fisicamente un gruppo di soggetti facilmente riconoscibile era un problema. È sempre un problema lasciare troppe tracce rispetto a quello che è un contesto operativo che non ha bisogno di etichette, ma di risultati e obiettivi raggiungibili».

Dalla prima rivendicazione alla nascita di Forza Italia

L’ultima rivendicazione significativa di Falange armata, prima di scomparire per circa 20 anni, è quella di Polistena, il 4 febbraio 1994. Siamo a pochi giorni dall’ultimo agguati ai carabinieri.

«Nel 1990, quando Falange armata appare sullo scenario criminale e politico italiano, dopo l’omicidio dell’11 aprile 1990 di Umberto Mormile, noi registriamo – come rivendicazioni attendibili – 18 rivendicazioni fra Falange armata e Falange armata carceraria – spiega Lombardo. Nel 1991, e quello è l’anno in cui si spiega che Falange armata carceraria è parte di Falange armata, le rivendicazioni sono 10. Nel 1992 sono 17. Nel 1993 sono 16. Nel 1994 sono 41, 39 delle quali fra gennaio e febbraio. Sono fuori strada nel dire che fra gennaio e febbraio 1994 qualcosa deve succedere? Sono fuori strada nel dirvi che quello che ci dice Graviano trova conferma in questi numeri. “Sbrighiamoci, bisogna dare il colpo di grazia perché i calabresi si sono mossi”. Non l’ho ringraziato formalmente Graviano per quello che ci ha detto? Mi pare di sì, perché ci ha spiegato che quello è un momento in cui la storia di cosa nostra e ‘ndrangheta procede di pari passo alla storia del movimento politico che verrà annunciato il 26 gennaio di quell’anno, Forza Italia. 39 su 41 rivendicazioni nel gennaio e febbraio 94. Una sola nel mese di marzo come colpo di coda di quel periodo. Un’altra ancora il primo dicembre 94. Poi silenzio».

La minaccia a Totò Riina

Falange armata ricompare solo nel 2013 con un messaggio rivolto niente meno che a Totò Riina. «A Riina, Falange Armata – sottolinea Lombardo – si rivolge dopo 19 anni per dirgli cosa? Riina è recluso all’epoca nel carcere di Opera, anche lui impegnato in una serie di chiacchierate con Alberto Lorusso, chiacchierate intercettate di cui si era iniziato a parlare sulla stampa. Falange armata rinasce dalle sue ceneri e gli dice “Riina chiudi quella maledetta bocca, i tuoi familiari sono liberi”. Stiamo minacciando Riina? C’è qualcuno al mondo capace di minacciare Totò Riina? Strano, pensavo che, come ci hanno raccontato per anni, in maniera fasulla e deviata, non ci fosse nessuno sopra Totò Riina. Attento, tu sei anziano e detenuto ma tu hai gente fuori che può fare una bruttissima fine. Al resto di pensiamo noi. Noi chi? Falange Armata. L’avrà capito il messaggio lo zio Totò? Voi che dite? Avrà capito che quello che, per una serie di circostanze legate al tempo che passa, stava dicendo a Lorusso rischiava di aprire nuovi canali investigativi per andare a capire quello che era successo negli anni? Tanto da spingere Falange armata a tornare. E siete sicuri che non esista anche oggi?».

Dai Piromalli a Dell’Utri

E i riferimenti che il pm Lombardo opera nel corso della sua ricostruzione si arricchiscono di ulteriori particolari, nel momento in cui ricorda quali furono le risultanze dell’inchiesta “Cent’anni di storia”. Proprio quando parla della nascita di Forza Italia, Lombardo fa riferimento alla «nota storia giudiziaria di Marcello Dell’Utri» ed al rapporto che questi aveva con la famiglia Piromalli.

«È noto che risultava avere rapporti stretti proprio con i fratelli Graviano e con Antonino Cinà, medico di cosa nostra vicino ai corleonesi e legatissimo ai Graviano». Si arriva così all’incontro fra Arcidiaco, cugino di Giuseppe Piromalli, e Marcello Dell’Utri. «E da “Cent’anni di storia” – riprende il pm – emergeva la figura del faccendiere Aldo Micciché, già della Democrazia cristiana e fuggito in Venezuela dopo condanna a 25 anni di reclusione per diversi reati. Micciché era uomo legato completamente “mani, piedi e culo” ai Piromalli-Molè, che all’epoca, fino al 1 febbraio 2008, quando l’asse Piromalli-Molè in qualche modo subisce un forte scossone per l’omicidio di Rocco Molè, è ancora unitario e granitico. Quanto ai compiti nell’organizzazione, Micciché metteva a disposizione il tessuto relazionale. Mentre Gioacchino Piromalli si incontrava con gli uomini di Graviano, Micciché era in contatto telefonino con Giacchino Arcidiaco, fornendo indicazioni circa un incontro che Arcidiaco avrebbe avuto con Marcello Dell’utri. Emergeva non solo il rapporto Dell’Utri-Micciché, ma anche Dell’Utri-Piromalli. I Piromalli avevano chiesto aiuto in cambio di appoggi elettorali. Micciché affermava di poter dire che la Piana è cosa nostra, il porto di Gioia Tauro l’abbiamo fatto noi, quello che è successo in Aspromonte è successo perché l’abbiamo fatto noi. E lì significa Polsi, cioè la testa formale della ‘ndrangheta nel mondo. E ricordati – gli dice – che la politica bisogna saperla fare e che ha avuto autorizzazione di dire che possiamo garantire Calabria e Sicilia. L’autorizzazione la dà non solo la ‘ndrangheta, ma quel livello elevatissimo su cui ‘ndrangheta e cosa nostra si parlano per evitare che ci possano essere incomprensioni o disallineamenti dannosi. Emerge, dunque, quello stabile duraturo strutturato sinergico rapporti fra Graviano e Piromalli».

Componenti mafiose di altissimo livello

Torna su Falange armata, il pm Lombardo. E lo fa per dire che in quel sistema «operano componenti mafiose di altissimo livello per ricattare le istituzioni dello Stato e serviva un clima favorevole a chi poneva in essere queste intimidazioni e dello stesso gruppo che aveva inventato questa sigla. Si voleva creare e si è creato un clima di terrore.  La vera ragione dell’azione diretta a far convergere su Falange armata la serie di delitti sopra indicati in una strategia raffinatissima, passava dall’esigenza delle mafie di non perdere il consenso costruito negli anni. Falange armata ha una componente operativa che sono le mafie. Non ha una componente operativa diretta. Essa progettava stragi e gravissimi delitti facendoli commettere ad altri, per rivendicarli e mandare messaggi a chi doveva capire. Non erano finalità di natura economica, banalizzabili e riferibili a vantaggi immediati che non fossero inseriti in una strategia ben più identificata. Non erano vantaggi ideologici. Nel sistema in cui Falange armata si inserisce ed opera l’ideologia interessa pochissimo. Escluse altre finalità, rimane una sola possibile finalità: quella altamente e squisitamente politica. Non intesa in senso ideologico, ma espressione di una sordida, inaccettabile, vomitevole lotta per il potere. Questo è. Non c’è altro rispetto all’inquadramento da dare. Le mafie sono componenti di questo sistema di potere».

La capacità di intimidire e condizionare da parte di chi stava dietro Falange armata e quindi la capacità di chi utilizzava quella sigla per le proprie finalità «era collegata alla rarità di quelle azioni rivendicate e cioè se si voleva ottenere uno scopo alto di intimidazione, non si poteva fare esplodere una minerva davanti ad una stazione carabinieri. Già nel suo momento genetico, che è antecedente alla stagione stragista in senso stretto del termine, chi aveva ideato questa strategia non poteva non attuarla attraverso contatti, relazioni, intelligenze, finalizzate a rafforzarne quell’intendimento con chi era in grado di scatenare, perseguendo lo stesso interesse, una vera e propria stagione terroristico mafiosa in questo Paese. Si poteva fare a meno di cosa nostra in un disegno del genere? Perché diventasse disegno totale, si poteva fare a meno della ‘ndrangheta? Soprattutto nel momento in cui esse avevano l’esigenza di mantenere ruolo centrale negli assetti di potere che governavano questo Stato. Si era trovato qualcuno che doveva poi eseguire quello che andava rivendicato. Bisognava fare rumore, ci raccontano Cannella e Calvaruso, nel momento in cui ci riportano le frasi di Bagarella decisive per tutti noi, quando questi, a contatto con i suoi uomini di massima fiducia, dice “mi hanno chiesto di fare rumore”. Questo sciame stragista che cresce e monta e si contestualizza su determinati obiettivi e si arricchisce di false rivendicazioni, spesso emulative, non deve farci dimenticare che esisteva un fenomeno di grande rilievo criminale che era reale. Sono morte decine e decine di persone. Tutto questo è reale. E doveva esserlo se si voleva ottenere lo scopo prefissato. E se tutto questo era reale, perché l’intendimento, indipendentemente da quello che dice Graviano o decine di collaboratori, tutto è finito nel febbraio del 1994? Perché?».

La nascita di Forza Italia e le promesse mancate di Berlusconi

«Come dice Spatuzza, “Graviano mi disse abbiamo il Paese nelle mani”. Punto. Ecco la rabbia. Abbiamo il Paese nelle mani – aggiunge Lombardo – ho dato indicazioni agli amici calabresi, sono andati oltre la mia cattura. Non è che, catturato Graviano, il disegno viene meno automaticamente. Ecco perché prosegue per pochi giorni il comando in Calabria, quando la componente calabrese viene avvisata che le esigenze sono venute meno. “Fermatevi, perché ora si apre il tempo delle risposte”, che mi pare di capire che non siano arrivate o non come Graviano si aspettava, visto che definisce Silvio Berlusconi “un traditore”. Il 14 marzo del 2017, parlando di chi lo aveva tradito e che gli stava facendo fare il carcere, dice “io sto pagando, va bene. Ma l’autore è lui”. Per poi aggiungere: “Ha tradito per una questione di soldi”. Questo dice Graviano parlando di Berlusconi.

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