giovedì,Aprile 18 2024

La Consulta stronca i propositi di rientro di Falcomatà: la legge Severino non è incostituzionale

La pronuncia della Corte costituzionale sul caso Pogliese elimina alla radice una delle strade che il sindaco sospeso pensava di poter percorrere. Ecco perché la norma non viola la Costituzione. Il precedente della Marcianò sbarra ulteriormente la strada. Si complica il rientro

La Consulta stronca i propositi di rientro di Falcomatà: la legge Severino non è incostituzionale

«Tornerò presto» aveva detto Giuseppe Falcomatà pochi minuti dopo la pronuncia della sentenza di primo grado del processo Miramare. Si mostrava fiducioso, il sindaco, circa la possibilità di una decisione favorevole in merito alla sospensione ope legis conseguente alla ormai nota legge Severino. Ed invece adesso, per lui e per tutti gli altri amministratori sospesi, la strada si fa dannatamente in salita

Sarà difficile, se non quasi impossibile, infatti, che la sospensione di 18 mesi comminata dalla Prefettura di Reggio Calabria possa essere revocata dal giudice civile competente a decidere su eventuali ricorsi presentati. Sono due fondamentalmente le direttrici sulle quali si muove l’assunto poc’anzi enunciato.

Il primo – decisivo o quasi – è la pronuncia emessa dalla Corte Costituzionale in merito alla fondatezza della questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Catania (ma non solo) sulla legge Severino. Ebbene, i giudici della Consulta hanno dato un verdetto secco: quella legge rispetta pienamente i parametri della Costituzione e non vi è alcuna violazione dei principi sanciti nella nostra Carta fondamentale.

Il sindaco di Catania, Pogliese, infatti, aveva sollevato – tramite i suoi legali – questione di legittimità costituzionale, ritenuta non manifestamente infondata dai giudici catanesi che avevano sollevato la questione dinanzi alla Consulta, lamentando la sospetta lesione degli articoli 3, 48, 51, 97 della Costituzione, sulla base del principio di non colpevolezza sancito dall’articolo 27 comma 1 della stessa Carta costituzionale. Nel caso di specie, Pogliese era stato condannato dal Tribunale di Palermo per il reato di peculato.

La tesi dei giudici catanesi

Secondo i giudici catanesi, l’esigenza cautelare sottesa alla sospensione dalla carica richiederebbe una verifica in concreto dell’entità del pregiudizio causato all’amministrazione, che potrebbe mutare sensibilmente caso per caso, in ragione della tipologia di reato e della maggiore o minore gravità del comportamento illecito accertato in sede penale. Prevedendo una durata fissa della sospensione, inoltre, il legislatore avrebbe introdotto un regime ingiustificatamente uguale per «comportamenti ontologicamente diversi oppure posti in essere con minore o maggiore gravità e, quindi, notevolmente disomogenei», in contrasto con il principio di uguaglianza, di cui all’articolo 3 Cost.

La lesione del diritto di difesa

Ora, i giudici della Consulta sono stati chiarissimi: il decreto prefettizio, con il quale si dispone la sospensione degli amministratori, «ha carattere vincolato e assolve a una funzione di mero accertamento dell’effetto sospensivo derivante direttamente dalla pronuncia di condanna. Il legislatore ha scelto infatti di individuare egli stesso le condizioni per l’applicazione della sospensione e di riservare ai giudici il compito di verificarne la sussistenza, senza apprezzamenti da operare nel caso specifico». Una soluzione che per la Corte non integra violazione degli articoli 24 e 113 Cost. Ciò perché tanto l’articolo 24 quanto il 113 enunciano un principio di effettività del diritto di difesa la cui violazione può considerarsi sussistente solo nei casi di «sostanziale impedimento all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 della Costituzione» o di imposizione di oneri tali da compromettere irreparabilmente la tutela stessa e non anche nel caso in cui la norma censurata non elimini affatto la possibilità di usufruire della tutela giurisdizionale». In sintesi, una «disciplina sostanziale che collega automaticamente la sospensione alla condanna penale non definitiva per determinati reati non è idonea a violare, di per sé, a cagione del previsto automatismo, il diritto di difesa, in quanto non preclude all’interessato la possibilità di far valere in giudizio il suo diritto nei limiti in cui esso è protetto dal diritto sostanziale». Qui la Corte procede elencando una serie di pronunce precedenti che corroborano il ragionamento sulla mancata lesione del diritto di difesa.

La durata della sospensione

Altro tema molto caro al Tribunale di Catania è quello della durata della sospensione, fissata nella misura di 18 mesi, senza alcuna gradualità da riservare all’autorità deputata a decretare la sospensione. Secondo i giudici catanesi le disposizioni censurate non considerano l’entità del pregiudizio causato all’amministrazione nella quale il condannato esercita la carica elettiva, pregiudizio che potrebbe variare a seconda della differente tipologia di reati accertati. Non tenendo conto di tale esigenza ed equiparando situazioni differenti, le disposizioni censurate violerebbero il principio di uguaglianza, né sarebbero correttamente bilanciati gli interessi in gioco contrapposti e, più specificatamente, per un verso il principio di buon andamento dell’azione amministrativa (97 Cost.) con quello dell’eletto al mantenimento della carica e degli elettori alla continuazione della funzione da parte del cittadino eletto (artt. 48 e 51 Cost.), nonché il principio di non colpevolezza sino a condanna definitiva (art. 27 Cost.).

Sul punto i giudici della Consulta non fanno altro che riferirsi a pronunce del passato e ad una fatta propria dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (17 giugno 2021) che ha recepito l’orientamento italiano, sancendo come «la sospensione in esame non ha natura sanzionatoria, ma è una misura cautelare diretta a evitare che coloro che sono stati condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi o comunque offensivi della pubblica amministrazione rivestano cariche elettive, mettendo così in pericolo il buon andamento dell’amministrazione stessa e la sua onorabilità».

Una logica che prescinde dalla concreta gravità del reato contestato e dalla pena irrogata e che si incentra invece sulla finalità cautelare perseguita, che è «quella di evitare che la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo pregiudichi lo stesso interesse al buon andamento e all’onorabilità della pubblica amministrazione».

Rispetto al fatto che la scelta della misura e la sua durata sia operata direttamente dalla legge, già in passato la Corte aveva rammentato come non fosse possibile negare al legislatore la facoltà di effettuare il necessario bilanciamento degli interessi coinvolti. Un bilanciamento che riguarda anche la durata della sospensione, che vede una immediata cessazione nel caso di proscioglimenti o assoluzioni.

Inoltre, quanto agli interessi contrapposti e indicati negli articoli 48 e 51, rispetto all’esigenza di tutela oggettiva dell’amministrazione, la scelta del legislatore appare non irragionevole soprattutto nell’ipotesi in cui la condanna non definitiva sopravvenga all’elezione, «posto che in tale ipotesi l’elettore ha espresso la propria scelta nella mera consapevolezza, tutt’al più, della pendenza del procedimento penale a carico del candidato».

Il principio di non colpevolezza

Stroncata anche la tesi che vorrebbe una lesione del principio di non colpevolezza sancito dall’articolo 27 Cost. «La sospensione – afferma la Consulta – non ha natura sanzionatoria, essendo priva dei tratti funzionali tipici della pena; essa, infatti, non consegue a un giudizio di riprovazione personale, ma è semplicemente diretta a garantire l’oggettiva onorabilità di chi riveste la funzione di cui si tratta».

Il precedente di Angela Marcianò

Fin qui, dunque, la decisione della Consulta che trancia sostanzialmente ogni appiglio già esplorato da precedenti ricorsi. Fra cui, appunto, anche quello di Pogliese sul quale Falcomatà faceva affidamento.

Ma c’è di più, perché nei mesi scorsi anche Angela Marcianò, condannata in abbreviato ad un anno di reclusione in primo grado, aveva ritenuto di ricorrere avverso la sospensione irrogata dalla Prefettura. Sul punto, il Tribunale di Reggio Calabria (lo stesso che dovrà pronunciarsi sul caso Falcomatà) aveva espresso motivazioni nette, rigettando il ricorso: «La natura cautelare della misura della sospensione consente di escludere che la scelta legislativa di prevedere una durata fissa della stessa per una serie di reati di diversa tipologia e gravità – scriveva il Tribunale – sia irragionevole per non permettere di bilanciare caso per caso gli interessi contrapposti del diritto all’elettorato passivo e del correlato diritto dei cittadini ad essere governati dai soggetti liberamente scelti con il contrapposto interesse pubblico al buon andamento ed all’imparzialità dell’amministrazione».

Ed ancora, quanto alla gradualità della durata della sospensione: «Non si ritiene, invece, che il legislatore dovesse anche prevedere la graduazione della misura della sospensione in termini temporali. Infatti, non costituendo, come visto, la sospensione una misura di carattere punitivo non si pone in questo caso alcuna esigenza di graduazione e proporzionalità in base al tipo di reato ed alla gravità dello stesso nel caso specifico.

La sua funzione puramente cautelare, che non sottende alcun giudizio di riprovazione personale nei confronti dell’eletto, perseguendo esclusivamente l’intento di tutelare il buon andamento dell’amministrazione, mediante la fissazione di una durata precisa di 18 mesi, è assolutamente ragionevole, in quanto frutto del bilanciamento tra i contrapposti interessi costituzionali coinvolti, posto che il diritto all’elettorato passivo ed il correlato diritto dei cittadini ad essere governati dalle persone da loro scelte non sono del tutto elisi, ma vengono temporaneamente compressi a tutela del contrapposto interesse pubblico, di pari rango costituzionale. Alcun altro bilanciamento caso per caso deve effettuarsi, proprio perché la graduazione presupporrebbe un giudizio sul fatto reato, che invece nel caso di una misura cautelare non deve essere operato, proprio perché la finalità della misura non è punitiva bensì preventiva e posta a presidio di un interesse pubblico».

Parole che non lasciano spazi di manovra e che fanno apparire arduo (per non dire impossibile) il percorso di Falcomatà in questo senso, ossia verso una revoca del provvedimento di sospensione emesso dalla Prefettura. Con ciò allontanando decisamente anche il suo possibile ritorno sulla scena politica istituzionale da primo cittadino. Rimane un’ultima opzione: l’intervento della politica. Che potrebbe modificare la legge Severino od operare sul reato di abuso d’ufficio. Ma si sa: i tempi della politica sono lunghi e diciotto mesi passano presto. Il tutto in attesa del giudizio d’appello. 

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