giovedì,Aprile 25 2024

Trentacinque anni fa, l’uccisione del vigile urbano Giuseppe Macheda

Faceva parte del team voluto dal pretore contro l'abusivismo edilizio. Aveva trent'anni e dopo tre mesi sarebbe diventato papà se un colpo di fucile non avesse stroncato la sua vita

Trentacinque anni fa, l’uccisione del vigile urbano Giuseppe Macheda

Giuseppe Macheda era un agente di polizia municipale di 30 anni. Dopo tre mesi sarebbe diventato papà se un colpo di fucile non avesse stroncato la sua vita. È successo il 28 febbraio 1985, trentacinque anni fa a Reggio Calabria. La sua unica colpa è stata quella di far parte della squadra, messa in campo dal pretore di allora, Angelo Giorgianni, per combattere l’abusivismo edilizio.

Il lavoro del team contro l’abusivismo

La sera prima gli avevano incendiato la macchina. Nelle due sere precedenti invece ad essere bruciata era stata la macchina di un collega della squadra di Giuseppe, Ferdinando Parpiglia. Ma tutto il team, composto da dieci vigili, senza paura, continuava un lavoro coraggioso che, nelle ultime settimane, aveva toccato punti delicati di un’economia corrotta: c’erano stati arresti e denunce di impresari e proprietari di case e sequestri di immobili.

L’agguato

E anche quella sera, il vigile Macheda, era di ritorno da una riunione operativa coi colleghi, protrattasi dopo la mezzanotte. Macheda torna a casa. Il sicario lo aspetta proprio lì. Il vigile citofona alla moglie chiedendole di aprire il garage. È un attimo: mentre Macheda sta per risalire in auto viene raggiunto da due spari e muore sul colpo. È la moglie, le ventiseienne Domenica Zema, la prima ad accorgersi dell’accaduto. Le sue urla coprono la quieta della notte. I vicini tentano i primi soccorsi ma è tutto inutile. All’arrivo della polizia e dell’ambulanza il corpo del vigile giace senza vita.

L’intitolazione del comando di polizia municipale

Nel 2014, la città di Reggio ha intitolato a nome suo e a nome di un altro agente ucciso, Giuseppe Marino, la sede del Comando di Polizia Municipale. Un segnale per testimoniare la vicinanza alle famiglie che vivono in silenzio il dolore a causa degli omicidi mafiosi e che troppo spesso vengono dimenticati. Come ricorda Rosa Quattrone, responsabile del gruppo familiari delle vittime della mafia, soltanto «la memoria ci consente di recuperare ciò che abbiamo dimenticato. Il nostro compito è quello di essere testimoni di storie come queste, storie di resistenza civica, con l’obiettivo di trasformare un ricordo privato in memoria collettiva del valore etico delle esistenze dei nostri cari».

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