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Brucia la montagna e con lei muore il diritto di restare. A San Lorenzo, comune vastissimo dell’Area Grecanica reggina, le fiamme nei giorni scorsi hanno divorato ettari di uliveti, lambito le case, costretto all’evacuazione alcune famiglie. Ma il fuoco non è la vera notizia. La notizia è quello che resta dopo: un paesaggio spettrale e un silenzio assordante.
È qui che si manifesta, in tutta la sua brutalità, il paradigma dello spopolamento: non solo mancano i presidi e i soccorsi, ma manca una visione, un’idea di futuro per chi ancora abita questi luoghi. Gli eroi di questi giorni, racconta il consigliere comunale Lorenzo Spizzica, sono stati i vigili del fuoco, i volontari e gli anziani del posto. La montagna brucia. E l’abbandono si fa cenere.
Le fiamme hanno fatto quello che lo Stato ha già iniziato da tempo: svuotare. A San Lorenzo, l’emergenza incendi non è un fatto eccezionale, è diventata un rituale estivo che scopre la fragilità strutturale del territorio. Pochi uomini e pochi mezzi che fanno di chi interviene un eroe, ma la verità è che non c’è una forza lavoro adeguata. Chi vive ancora nelle frazioni montane è troppo anziano per affrontare un disastro. Eppure c’era, presente. «Ho visto signori di settant’anni con le zappe e le pale, perché non c’è nessun altro a farlo», racconta Spizzica, che denuncia anche l’assenza di prevenzione: nessuna pulizia dei terreni, nessuna politica attiva per contrastare il rischio incendi.
«Ognuno dovrebbe essere obbligato a curare il proprio pezzo di terra. Ma senza incentivi, senza controlli e senza convenienza, la gente abbandona. E la montagna si trasforma in miccia». Il fuoco, dunque, è solo l’ultima scintilla. L’incuria è l’esca. L’indifferenza, la benzina. Se coltivare non conviene, la terra si lascia morire. È una logica spietata ma semplice, quella che Lorenzo Spizzica descrive con amarezza: «Se produco olio e lo vendo a 1 euro al litro, è normale che smetto di potare, ripulire, curare. E a quel punto, tutto va in rovina». A San Lorenzo, come in tanti altri comuni delle aree interne, il collasso del tessuto agricolo non è solo economico: è sociale, culturale, ambientale. Nessuno investe più in queste zone perché nessuno pensa che possano ancora produrre vita. E la politica, invece di invertire la tendenza, la legittima. Spizzica lo dice chiaramente. «Se continuiamo a concentrare tutto sulla costa, la montagna muore». È un messaggio che si scontra frontalmente con la linea tracciata dal governo nazionale, che attraverso la Strategia per le Aree Interne ha di fatto sancito l’abbandono programmato dei borghi non più “redditizi”.
L’idea è quella dell’accompagnamento lento: niente investimenti, niente servizi, nessun ricambio. Solo una lenta eutanasia del territorio. Ma chi ci vive non ci sta. «I paesi muoiono, sì. Ma non da soli. Qualcuno li sta spegnendo». Le strade che portano alla montagna sono rotte. Quelle che portano via, invece, funzionano benissimo. È questa, secondo Spizzica, la metafora più fedele dell’abbandono: la viabilità interna è un disastro, e chi resta deve affrontare ogni giorno un viaggio a ostacoli per raggiungere un ospedale, un ufficio, un servizio essenziale. «La strada che collega il ponte di Bagaladi a Roccaforte è praticamente impercorribile. Da anni nessuno la pulisce, nessuno la sistema. È di competenza della Città Metropolitana, ma è come se non esistesse».
Una manutenzione ordinaria che diventa un’impresa straordinaria, e che in molti casi manca del tutto. Non è solo questione di buche o frane: è una distanza che diventa isolamento. Gli uffici pubblici vengono spostati sulla costa, anche quelli che dovrebbero servire l’entroterra. L’Afor, per esempio, ha la sede al mare. Ma se ogni funzione amministrativa, scolastica, sanitaria viene decentrare verso il basso, la montagna si svuota per forza. Spizzica non chiede miracoli: chiede di tornare a pensare alle “vie di mezzo”, a quei presìdi territoriali che tengano in vita le comunità. Perché, ribadisce, «se per fare una pratica devi guidare un’ora e mezza, finisce che ti trasferisci. Ma se bastassero 30 minuti, ci penseresti. Ed andare via non sarebbe l’unica chance».
A San Lorenzo l’acqua arriva a singhiozzo. E quando arriva, sembra un miracolo. La situazione idrica è lo specchio più evidente dello scollamento tra bisogni reali e risposte istituzionali. Lo abbiamo raccontato lo scorso anno, in una crisi senza precedenti, anche qui su ilReggino.it. «È vent’anni – racconta Spizzica – che aspettiamo la sostituzione di un solo chilometro di condotta. Un chilometro. E ancora niente». Intanto, l’acqua si disperde prima di arrivare ai serbatoi, e i cittadini vivono nell’incertezza: oggi c’è, domani no. E dopodomani neppure.
Non è colpa del Comune attuale, precisa, ma di una catena di disinteresse che parte da lontano: da chi non ha mai investito, da chi ha deciso che non valeva la pena farlo. È questa la logica che più fa male: non si investe perché non c’è gente, e non c’è gente perché non si è mai investito. L’acqua, in un paese montano, dovrebbe essere un diritto. Qui invece è diventata una concessione. E la gente, rassegnata, finisce per dire «grazie» anche quando le viene semplicemente restituito ciò che le spetta. «Ma non può essere normale – insiste Spizzica – che a San Lorenzo si venga elogiati solo perché per due giorni di fila l’acqua è arrivata».
Eppure, San Lorenzo non vuole morire. In un contesto che sembrerebbe segnato da rassegnazione e abbandono, qualcosa si è mosso. E viene dal basso. «I cittadini ci stanno dando una mano. Anche i giovani, quelli che non avevamo mai visto partecipare, ora si fanno avanti», racconta Spizzica.
È questo lo spirito che ha dato vita a “San Lorenzo sveglia”: un movimento di coscienza collettiva che vuole ridare dignità e prospettiva al borgo. Nessun eroismo, solo volontà concreta di cambiare. «Per la prima volta – racconta Spizzica – a San Lorenzo esiste un piano con priorità chiare. E non vogliamo tradire la fiducia di chi ci ha dato il 52% eleggendo Sandro Polimeni sindaco e la nostra compagine amministrativa».
Il rilancio passa dai servizi: una viabilità più veloce, acqua garantita, un ufficio postale, una guardia medica, una scuola che non chiuda, un defibrillatore che può salvare una vita anche per strada. È questo il minimo che serve per vivere, non per sopravvivere. E San Lorenzo punta a diventare comune cardioprotetto con l’installazione di questi salvavita, ma «quando chiudi una scuola o una caserma – dice Spizzica – è come se chiudessi il paese. Ma se anche uno solo ci crede, può valere la pena di lottare».
San Lorenzo è ancora vivo. Nonostante tutto. E chiede solo di essere ascoltato.