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(foto da Vittimedimafia.it) – Una storia di resistenza alle angherie e alla prepotenza mafiosa perpetrate, per affermare il dominio nella Piana di Gioia Tauro, “espropriando” con la forza dell’intimidazione e con una fitta rete di prestanome, infinite distese di agrumeti e uliveti.
Resistenza a un impossessamento forzato, a una usurpazione mafiosa attraverso i quali le ‘ndrine, come quella dei Mammoliti, estendevano smisuratamente il controllo sul territorio. A questa usurpazione, sulle orme del padre, si era fermamente opposto il barone Antonio Carlo Cordopatri. Era di famiglia nobiliare proveniente da Vibo e con molti possedimenti terrieri e immobiliari nella piana di Gioia Tauro.
Vessato, e con due attentati scampati alle spalle, non cedette ai soprusi dei Mammoliti che già erano riusciti a impossessarsi di altri beni della famiglia. Con assegni che non avrebbero dovuto mai essere riscossi pena la vita, i Mammoliti avrebbe voluto “acquistare” i suoi terreni.
Non cedette ma questo non impedì ai Mammoliti di arrivare a prendere possesso tramite un prestanome, Francesco Ventrice, di diversi ettari che il barone non riuscì a recuperare.
La relazione sul caso del deputato Nicola Vendola
«È agli atti della Commissione parlamentare Antimafia – si legge nella relazione sul caso Cordopatri presentata dal deputato Nicola Vendola approvata nel 1995 – la seguente ricostruzione:
• negli anni ’60, durante la faida tra la famiglia Barbaro e quella Mammoliti, Saverio Mammoliti venne ospitato in Argentina presso il cugino Vincenzo. Quest’ultimo, rientrato in Italia, contrasse matrimonio con Maria Rosa Mammoliti, sorella di Saverio (arrestato per il sequestro di Paul Getty):
• Il vecchio Barone Cordopatri ed il figlio Antonio Carlo nel 1965 rifiutano di stipulare contratti di affittanze agrarie relativamente ad un loro fondo di complessivi 12 ettari con la famiglia Mammoliti.
I Mammoliti riuscirono tuttavia a far stipulare da un loro prestanome, Francesco Ventrice, un contratto semestrale con i Cordopatri. Alla scadenza del contratto, richiesto di lasciare libero il fondo, il Ventrice rivelò il suo effettivo ruolo di prestanome dei Mammoliti. Addusse che non avrebbe potuto lasciare libero il fondo perché, altrimenti, sarebbe stato ucciso.
Al fine di non esporre il Ventrice a rappresaglie, il vecchio Barone Cordopatri si limitò ad intentare un’azione di rilascio del fondo. L’azione si concluse a suo favore nel 1970.
Per impedire questo rilascio, i Mammoliti organizzarono ed attuarono un attentato nei confronti di Antonio Cordopatri (cosiddetto attentato alla Ferrandina). Denunciati in concorso tra loro Francesco Ventrice, Vincenzo Mammoliti e tale Todaro Domenico. L’attentato ebbe, comunque, l’effetto di bloccare le procedure di recupero del terreno che il Ventrice continuò a condurre».
Ecco il contesto in cui maturò l’omicidio del barone Antonio Carlo Cordopatri che non “svendette” e neppure riuscì a riavere le terre sottratte con l’inganno. Pagò con la vita la sua resistenza e il suo tentativo di ristabilire i diritti di proprietà sulle terre. Pagò con la vita il suo isolamento e l’indifferenza da parte dello Stato al quale aveva sempre denunciato tutto quanto subiva rimanendo ignorato e inascoltato.
10 luglio 1991
Era la mattina del 10 luglio del 1991, quando il barone appena uscito di casa, a Reggio Calabria, fu ucciso. Freddato da un killer, subito arrestato e identificato. Salvatore La Rosa, poi condannato, quale autore materiale dell’omicidio, nel 1993 della Corte d’Assise di Reggio Calabria, alla pena dell’ergastolo poi ridotta a 25 anni di reclusione dalla Corte d’Assise d’appello di Reggio Calabria nel 1994. La sentenza divenne definitiva nel 1995. Come mandante fu condannato definitivamente Francesco Mammoliti.
L’arresto del killer avvenne grazie alla pronta reazione della sorella, la baronessa Teresa, sopravvissuta all’agguato. Suo fratello le morì tra le braccia e per lei quel giorno era iniziata un’altra battaglia per la giustizia, per difendere le sue terre e contro l’indifferenza dello Stato.
«Il mio ramo Cordopatri si è chiuso con la morte di mio fratello il 10 luglio 1991. Quel giorno abbiamo perso abbiamo perso la battaglia contro la mafia, una battaglia che durava da trent’anni. L’abbiamo persa». Poche ma incisive erano state le sue parole nel 1995 in occasione della presentazione del libro “Noi, Cordopatri dei Capece, contro sopraffazioni e violenze mafiose”, in cui ha raccontato la storia familiare con la cugina Angelica Rago Galizzi.
Con lei lavorò quelle terre che nessuno a Oppido Mamertina, voleva lavorare per timore dei Mammoliti. Quell’incontro avvenne presso la casa della Cultura di Roma, alla presenza, tra gli altri, della giornalista reggina Adele Cambria e del sindaco di Polistena, già deputato, Girolamo Tripodi.
La sorella Teresa, la Baronessa Coraggio
Poche parole per la baronessa, che il quotidiano francese Le Figaro ribattezzò la Baronne courage, che soltanto l’anno prima aveva condotto una strenua protesta e uno sciopero della fame davanti al tribunale di Reggio Calabria per denunciare le ingiustizie che continuava a subire anche dopo l’omicidio del fratello.
Lo Stato pretendeva il pagamento di tasse su terreni e uliveti usurpati dalla mafia. Quella proprietà, di fatto, non era stata più esercitata dagli aventi diritto. E intanto lo stesso Stato elargiva agli usurpatori mafiosi contributi comunitari per l’agricoltura.
Una vicenda che, grazie all’interessamento dell’allora deputata Sandra Bonsanti e dell’allora ministro dell’Interno del governo Berlusconi Roberto Maroni, ebbe risonanza nazionale.
Fu costituita una Commissione d’inchiesta amministrativa che si occupò di analizzare la situazione. Fu posta l’attenzione anche sull’effettiva azione delle forze di Polizia e della Magistratura per consentire alla baronessa Cordopatri di riottenere i terreni «espropriati».
Scomparsa nel 2018, a lei si deve la forte e vibrante richiesta di attività investigative articolate e la rottura della cortina di silenzi e omertà erano seguiti all’uccisione del fratello. Un impegno che portò avanti fino alla fine, nonostante le delusioni e i progetti naufragati. Ha invocato lungo quello Stato che, se ci fosse stato, avrebbe salvato suo fratello e la Calabria, ancora prima delle sue terre e dei suoi beni di famiglia.