Lazzaro, 40 anni fa l’omelia di don italo Calabrò per il piccolo Vincenzo Diano sequestrato dalla ‘ndrangheta
Il presule reggino dinnanzi a quasi 1000 persone: «Chi è più prigioniero, Vincenzo o quelli che lo tengono prigioniero? Ci sono catene dinnanzi alle quali quelle esterne non significano niente, anche se fanno soffrire»
Aveva 10 anni, come Francesco Cribari rapito nei pressi nella Sila nel 1974 e come Rocco Lupini rapito a Molochio con la madre Fausta nel 1983, il piccolo Vincenzo Diano sequestrato dalla ‘Ndrangheta a Lazzaro di Motta San Giovanni, nel reggino, nel luglio del 1984.
Il sequestro di persona è stata per la criminalità organizzata calabrese un modo per accumulare capitali che venivano investiti nell’acquisto di droga e armi da rivendere nei mercati europei e mondiali. I rapimenti di maggiore impatto mediatico furono il sequestro di John Paul Getty III nel 1973, quello di Cesare Casella nel 1988 e quello di Alessandra Sgarella nel 1997.
L’Anonima sequestri calabrese aveva iniziato a violare il suo codice d’onore, nascondendo anche bambini in Aspromonte, già dal 1974 con Francesco Cribari. Nel 1984 fu la volta di Vincenzo Diano, figlio di imprenditori reggini.
Solo pochi giorni dopo il rapimento a Lazzaro l’indimenticato sacerdote reggino don Italo Calabrò invocò la liberazione del piccolo, durante un’omelia che rimase impressa nella storia. A quella celebrazione Eucaristica parteciparono quasi mille persone. In tanti ascoltarono quelle ferme e inedite per l’epoca parole di condanna dell’operato dei mafiosi, pronunciate da don Italo Calabrò, autentico pioniere dell’antimafia sociale. I festeggiamenti in onore della Madonna delle Grazie erano stati sospesi. La comunità parrocchiale, con un coraggioso e fermo comunicato, aveva condannato il vile gesto. Il piccolo fu liberato il 7 ottobre dello stesso anno, dopo 72 anni di prigionia.
L’omelia dinnanzi a mille persone
«Cari amici e fratelli nella fede, Don Mimmo Marino (parroco di Lazzaro, ndr) ha introdotto questa celebrazione liturgica ed ha evidenziato i motivi che ci hanno qui riuniti, attorno all’altare di Dio, per un momento di preghiera in una pubblica piazza, come esterna ed impegnativa celebrazione di fede in un momento così drammatico per la famiglia del piccolo Vincenzo Diano e, di riflesso, per Lazzaro e per tutta la nostra provincia di Reggio.
È necessario dare una risposta non a questa domanda: “Perché è stato rapito Vincenzo Diano?”. Piuttosto a questa: “Perché è stato rapito un bambino? Perché è stato oppresso un uomo?”. Ed è ora che noi, anche come chiesa, ci ritroviamo in un momento pubblico di preghiera per riparare davanti a Dio e per protestare pubblicamente, per pregare insieme perché si stabilisca una cultura nuova, la cultura della vita, della non violenza, della giustizia, della libertà. Ecco perché, per il rapimento di Vincenzo, il comitato per le feste di Lazzaro, con a capo il parroco, interprete dei sentimenti vostri, cittadini di Lazzaro, ha sospeso lodevolmente i festeggiamenti esterni in onore della Madonna delle Grazie e ha rivolto l’invito per questo pubblico momento di preghiera».
L’omelia, registrata da un volontario del Centro Comunitario Agape, è riportata integralmente nel capitolo “A servizio della verità: per chiedere la liberazione del piccolo Vincenzo“ del volume “Don Italo Calabrò. Un prete di fronte alla ‘Ndrangheta” (2007 Rubbettino), scritto da Mario Nasone, oggi presidente del centro comunitario Agape, e Mimmo Nasone di Libera Reggio Calabria. Il libro ripercorre l’impegno fermo, determinato e coraggioso del prete dei poveri e fervente testimone di carità contro la violenza e le angherie mafiose. Un impegno affrontato a viso aperto anche in occasione del frangente drammatico di quell’estate di 40 anni fa. Proponiamo alcuni brani di quella memorabile e coraggiosa omelia.
«Chi è più prigioniero?»
«Io conosco – affermava don Italo Calabrò – la deformazione che in seno alla mafia è stata data proprio a questa parola “uomo”: i mafiosi si ritengono uomini, e addirittura – la parodia diventa sacrilega – “uomini d’onore”.
Se c’è qualcuno che non è un uomo è invece il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha l’onore è il mafioso, i mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore: questo dobbiamo dirlo tranquillamente, con tutta la comprensione e la pietà. lo non lo dico con durezza, no, ho riflettuto su questo e, pensando a Vincenzo, cara signora, pensando ad altri che sono nelle loro mani, io ho detto: ma chi è più prigioniero, Vincenzo o quelli che lo tengono prigioniero? La risposta immediata sarebbe: Vincenzo, perché non può tornare a casa sua, e sono tutti gli altri sequestrati della Calabria.
Umanamente parlando e guardando alle apparenze è così, ma chi è più prigioniero: colui che è legato esternamente o colui che è legato dentro, colui che non è capace più di amare, colui che non è capace più di credere nella vita? Oh certamente, chi ha spento nel cuore la vita, è il prigioniero più disgraziato: ci sono catene dinnanzi alle quali quelle esterne non significano niente, anche se fanno soffrire. Sono le catene di dentro quelle che sono veramente pesanti, sono quelle catene di cui parla il Vangelo e per chi le ha, il buttarsi a mare, tutto sommato è una liberazione. Perché dentro sono morti questi esseri, non hanno più la libertà di sperare, di credere; forse avranno famiglia, avranno moglie, avranno figli, ma sono esseri umani? No, certo, hanno perduto quella che è la caratteristica più bella, quella dell’essere Uomini nel senso pieno, con la U maiuscola».
«Neppure le belve non violentano la loro natura come i mafiosi»
«E neppure possiamo dire: sono delle belve. No – sottolineava don Italo Calabrò – non possiamo offendere le belve – se noi diciamo: “costoro sono delle belve” offendiamo le belve; no, le belve obbediscono a degli istinti e sono condizionate dagli istinti, ma si fermano dinnanzi a quel blocco che la natura stessa ha costituito, non lo violentano. Questi esseri, invece, fanno violenza alla loro natura umana in sé stessi prima ancora di fare violenza agli altri. Ma siamo nel cuore di una celebrazione eucaristica, stiamo ricordando la passione e la morte del Signore, e la sua risurrezione; e Gesù, prima di morire, dall’alto della Croce, mentre era perpetrato un delitto, disse: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Chi di voi conosce delle persone che sono cadute dentro le spire della mafia sa che i primi a maledire la mafia e il giorno in cui sono entrati sono la gran parte dei mafiosi, perché sanno che una volta presa quella strada è strada di morte per gli altri, ma è strada di morte anche per loro, purtroppo. Padre, perdo-nali, perché non sanno quello che fanno, illumina le loro co-scienze, sono pur sempre fratelli nostri in umanità, ci dice Paolo VI, sono anch’essi fratelli nella fede, sono stati anch’essi bat-tezzati, chissà per quale insieme di circostanze, per quale intreccio di situazioni sono precipitati sulla via della morte».
«Dobbiamo sentirci costantemente mobilitati, come cristiani e come cittadini»
«La Madonna ottenga dunque a questa gente generosa di Lazzaro di essere impegnata in una campagna che non può esaurirsi stasera. Quando Vincenzo tornerà – noi ci auguriamo che sia al più presto – nelle braccia di papà e mamma, noi non possiamo dire: disarmiamo, perché un fatto simile potrà avvenire in un paese vicino, in un’altra città, perché non abbiamo stabilito una cultura, un sistema, una civiltà nuova.
Noi dobbiamo sentirci costantemente mobilitati, come cristiani e come cittadini, per portare avanti questi valori di giustizia, di libertà, di pace, di rispetto della vita, di ogni vita umana, dal momento in cui è concepita fino al momento in cui, per una lunga, cronica malattia, si consuma in vecchiaia la lenta dissoluzione; per rispetto della vita umana di chi dispone di mezzi economici e della vita umana, di chi è solo, di chi è povero, di chi è debole.
Questi valori la Madonna delle Grazie ottenga a tutti noi di richiamare questa sera; la memoria della passione, morte e risurrezione del Signore accenda nel nostro cuore luce di speranza; è nella luce di questa speranza che noi proseguiamo il nostro cammino». Così concludeva la sua accorata omelia a Lazzaro nell’agosto del 1984, don Italo Calabrò.