Giornata della Memoria, l’umanità del campo di Ferramonti nello scritto di Mario La Cava: «Un lager che non era un lager»
Lo scrittore di Bovalino dedicò alla storia appena scoperta un articolo sul Corriere della Sera. Era il 13 Febbraio 1984

«A Ferramonti gli internati, potevano fare cose che in altri campi erano impensabili: giocare a pallone, organizzare concerti, seguire riti religiosi, ottenere permessi di libera uscita. È stato un campo speciale, distintosi per umanità di trattamento sugli altri costruiti in Italia. Trattenne fino a 1500 ebrei, prevalentemente fuggiti dai paesi d’Europa dove si era esteso il regime nazista, oltre un numero notevole di stranieri sorpresi dalla guerra in Italia e ritenuti, per gli indizi più vaghi, antifascisti. Il campo si chiamava Ferramonti, ed ancora il luogo è così designato. Trovasi presso Tarsia, in provincia di Cosenza, nella valle del Crati, sulla linea ferroviaria Sibari/Cosenza, ed è situato più lungo il versante tirrenico che lungo quello ionico».
Riportava così lo scrittore calabrese Mario La Cava in un articolo sul campo di Ferramonti di Tarsia, nella valle cosentina del Crati, pubblicato sul Corriere della Sera. «In Calabria un lager che non era un lager», questo il titolo apparso il 13 febbraio del 1984, seguito dal sottotitolo «Impiantato a Ferramonti di Tarsia, a 35 chilometri da Cosenza, si distinse per l’umanità di trattamento: nessun prigioniero fu seviziato o ucciso. Gli internati potevano giocare al pallone, organizzare concerti, seguire riti religiosi, ottenere permessi di libera uscita. Il vecchio magazziniere del campo parla dell’ultimo comandante, il maresciallo Marrari: “Era una bravissima persona, restituì denari e gioielli fino all’ultimo anellino”».
Uomo di cultura del profondo Sud, originario di Bovalino, Mario La Cava confidò così la scoperta del campo di Ferramonti con la scrittrice Natalia (Levi) Ginzburg, che già lo conosceva. Moglie di Leone Ginzburg, di origini russe, morto nel 1944 per le torture inferte dai tedeschi allo scopo di costringerlo a collaborare. Torture alle quali non cedette, pagando con la vita la fedeltà ai suoi ideali e la sua resistenza.
«Appresi, qualche tempo fa, che anche in Calabria funzionò, durante l’ultima guerra, un campo di concentramento per ebrei. Strano che il fatto non fosse di conoscenza comune e che le notizie ricevute fossero vaghe e confuse. Ne parlai a Natalia Ginzburg, credendo di rivelarle cosa che potesse ignorare; ma ella era informata di tutto. Sapeva che nessuno degli internati era stato ucciso né era stato seviziato in emulazione coi lager tedeschi».
Il maresciallo Gaetano Marrari
Quella scoperta spinse Mario La Cava a recarsi in visita a Ferramonti di Tarsia, dove il campo era stato allestito nell’Italia delle leggi razziali. Grazie all’incontro con l’ex magazziniere, fece un giro all’interno e apprese la storia del magnanimo comandante del campo, il maresciallo di origini reggine Gaetano Marrari che poi volle conoscere. Non riuscì, tuttavia a farlo direttamente, per via dello stato influenzale dello stesso maresciallo.
«Potei parlare col genero Rizzi che con commuovente semplicità aveva fatto della vita del maresciallo un mito da raccontare ai posteri(…). Era di servizio a Roma – riportava Mario La Cava – col grado di maresciallo, quando nel 1940 fu scelto a dirigere il campo di concentramento per ebrei ed antifascisti stranieri a Ferramonti. “Perché proprio lui e non altri?”. Forse perché i superiori sapevano che viveva solo a Roma e i familiari in Calabria, rispose Rizzi. Può darsi che la scelta non fosse determinata da particolari meriti fascisti. Il regime spesso si orientava a caso. D’altra parte nel 1940 l’Italia non era stata ancora sopraffatta dalle direttive germaniche e naziste. La persecuzione contro gli ebrei poteva apparire formale, non sostanziale, e se non legittima, adeguata al grave momento che l’Italia attraversava e alla necessità di non disturbare gli alleati tedeschi. Anche i servizi più ingrati ai quali si fosse costretti, potevano essere ingentiliti dall’umanità di che li avesse compiuti. Ed il maresciallo Marrari fu all’altezza dei suoi umani ideali. Le testimonianze degli internati parlano chiaro; e parlano anche a nome di chi è rimasto in silenzio».
Nel suo articolo Mario La Cava si soffermò sulla particolare umanità del maresciallo Marrari, riportando anche una delle tante missive che egli ricevette dopo la chiusura del campo, quale segno di stima e riconoscenza. «Il Dott. Lartin Ruben, di Milano, in una lettera scritta da Ferramonti il 25 ottobre 1943, poco prima della sua liberazione, scrive: “a nome di tutti gli internati del campo sento il dovere, prima di partire di ringraziarvi per il particolare trattamento, contrariamente alle direttive della Milizia con la quale eravate sempre in continua lotta perché pretendeva che voi ci vessaste (…). Dobbiamo a voi la nostra salvezza per averci protetto, rispondendo al fuoco dei tedeschi e per averci fatto ricoverare nel bosco accanto al fiume Crati (sotto la vostra responsabilità) onde sfuggire alle ire delle truppe tedesche in ritirata. Tutto dobbiamo al vostro coraggio per avere piazzato le mitragliatrici all’ingresso del Campo quando il 19 marzo 43 i tedeschi volevano impadronirsi degli internati».
Non risparmiò dettagli circa la vita dentro il campo che gli era stata raccontata, consentendo ai lettori di scoprire anche questa pagina di Storia e di Umanità scritta in Calabria.
L’editore Gustav Brenner
Nel suo racconto anche la storia di chi, dopo essere approdato, strappato alla patria, scelse di restare. Fucina di vocazione editoriale e culturale fu proprio Cosenza per la famiglia austriaca di origine ebraica Brenner, proveniente da Vienna. Internato a Ferramonti durante la Seconda Guerra Mondiale, Gustav Brenner, infatti, rimase in Calabria dopo la chiusura del campo. In una delle uscite per l’acquisto di derrate alimentari, che la direzione benevola del campo consentiva, aveva conosciuto Emilia Iaconianni, che sarebbe diventata la sua fidanzata e poi sua moglie. Nel 1950, dopo il matrimonio, Gustav Brenner aprì una libreria e poi fondò la casa editrice “Casa del Libro”, le cui redini oggi sono nelle mani del figlio Walter che l’ha rinominata Edizioni Brenner, in onore del padre.
«L’editore Brenner di Cosenza mi assicurò che suo padre, fuggito da Dachau e preso in Italia, dove era finito a Ferramonti, poteva recarsi fino a Roggiano Gravina per fare acquisti in conto del Campo. Qui conobbe quella che poi diventò la sua fidanzata. Finita la guerra, si sposarono a Cosenza e nel 1950 poté aprire una libreria editrice, seguendo l’esempio del suo genitore che l’aveva avuta a Vienna. Significativa la continuità della vocazione editoriale».
Sulla scia di questo intreccio tra Grande e Piccola Storia così significativo, lo stesso Mario La Cava scelse di richiamare nel suo articolo un Il processo Eichmann
La vicenda della Shoah era stata, per altro, da Mario La Cava, giornalista, osservata e raccontata già in occasione del processo ad Adolf Eichmann, iniziato a Gerusalemme nell’aprile del 1961 (quindici anni dopo il processo di Norimberga). La Cava assistette quale inviato per il Corriere Meridionale di Matera, probabilmente tra le testate più piccole accreditate a seguire il grande evento di portata storica. «Cercai i suoi occhi, ma essi nemmeno per un momento si prestavano ad essere guardati. Eichmann ignorava il pubblico. All’annunzio dell’arrivo del Tribunale, scattò in piedi con moto di militaresca eleganza e precisione. La pelle della sua faccia non sembrava viva, ma conciata e tirata sulle ossa, come se tale fosse stata resa dall’indifferenza dell’animo e dall’esercizio costante della volontà malvagia. Labbra sottili, taglienti di chi non aveva mai sorriso ad alcuno. Le mani, tozze e robuste davano un certo turbamento inspiegabile: come fossero le mani di chi sa colpire crudelmente». Così scrisse Mario La Cava in Viaggio in Israele del funzionario del Reich, esperto di questioni Ebraiche e promotore della Soluzione finale concretizzatasi nella shoah, processato e condannato a morte a Gerusalemme nel 1962, dopo un anno di processo e oltre un decennio di latitanza in Argentina sotto falsa identità. Anche Mario La Cava rimase, infatti, colpito dall’impassibilità agghiacciante di Eichmann, uomo saldo nella sua obbedienza, per il quale la fedeltà al regime significò abdicare alla facoltà di pensare e di discernere il bene dal male. Hannah Arendt, la filosofa e politologa tedesca, anche lei a Gerusalemme per seguire le 120 sedute del processo come inviata del settimanale New Yorker, il cui resoconto ed i cui commenti furono pubblicati nel 1963 nel saggio La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme, per prima scrisse che «le sue azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso». Mario La Cava non seguì solo il processo ma visitò la terra di Israele, compiendo un’analisi su quella convivenza tormentata tra popoli e culture. «I Palestinesi sono quelli che non hanno potuto vivere con i fratelli ‘arabi’, che li hanno lasciati sotto le tende, dopo la guerra del ’48. Il sentimento della patria perduta nacque e si sviluppò negli anni dell’abbandono e della fame. È questa una realtà irreversibile. Gli Israeliani sono coloro che, in quanto ebrei dispersi nel mondo, non hanno potuto vivere con i loro fratelli ‘cristiani’. L’antica patria si tinse per essi, nella sciagura, dei colori del sogno. La riconquistarono per necessità, col sacrificio del lavoro e con le arti dell’ingegno, diventando guerrieri nelle prove supreme». Il suo diario narra, così, della situazione di due popoli e del loro destino dentro la Grande Storia. Una storia che ancora oggi è un fronte tragicamente aperto.Viaggio in Israele