Blitz anti-‘ndrangheta a Gebbione, Lombardo: «Reggio non è una città come le altre»
Il magistrato della Dda: «Questa terra merita risposte continue, per consentire alle persone perbene che scelgono di viverci di non temere più le logiche mafiose»

«La prima operazione in cui ho dato un importante contributo da sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria è stata eseguita nel luglio del 2007. Si trattava dell’operazione Gebbione. Oggi siamo nel maggio del 2025 e, dopo 18 anni, stiamo ancora parlando della forza di una storica articolazione di ’ndrangheta radicata fortemente sul territorio di Reggio Calabria: la cosca Labate». Così in conferenza stampa il procuratore della Dda Giuseppe Lombardo.
«È inutile che ripercorra con voi la storia della famiglia Labate, perché è una vicenda assolutamente nota, che si sviluppa lungo un periodo temporale lunghissimo, con un ruolo di rilievo – come si può cogliere nel lavoro svolto dai colleghi e nel lavoro del ROS, condotto con grande attenzione e scrupolo – rispetto a un quartiere che è probabilmente il più interessante dal punto di vista commerciale, e anche l’area più popolosa della città».
Nel corso delle indagini abbiamo valorizzato un dato particolarmente significativo: Reggio è un insieme di sotto-articolazioni di ’ndrangheta, che spesso insistono su territori con una popolazione relativamente modesta. Quando però parliamo dell’area di influenza della cosca Labate, ci riferiamo a una zona che riguarda circa 54.000 persone. Questo dato, all’interno degli equilibri della ’ndrangheta, non può essere trascurato».
«Reggio Calabria non è una città come le altre. E sarebbe opportuno sottolinearlo ogni volta che si parla di ’ndrangheta operante su questo territorio. La rilevanza e la forza di una famiglia criminale derivano anche dall’area territoriale che controlla».
«Ho citato l’operazione Gebbione non per nostalgia, ma perché quello che potrebbe apparire come un dato negativo – il fatto che dopo 18 anni siamo ancora qui a parlare dei Labate – va letto in modo diverso. Va letto come un segnale della straordinaria continuità investigativa che si porta avanti su questo territorio, con costanza, impegno e attenzione, proprio per dare attuazione concreta a quel principio della continuità investigativa che è fondamentale nei fenomeni criminali permanenti, come quello ricostruito nell’ordinanza odierna».
«L’operazione – come avrete notato – è stata denominata “Monastero”. Questo è il nostro compito: portare avanti progetti investigativi che non si esauriscono in battute isolate, ma che siano in grado di mandare un messaggio chiaro a chi della ’ndrangheta fa parte e a chi vive secondo logiche mafiose: noi ci siamo sempre e comunque, anche dopo decenni».
«L’attenzione investigativa non si spegne mai. Questo è il significato da attribuire a un’operazione come quella odierna, che fa seguito – lo diceva prima il collega Ignazitto – alla ricostruzione dell’operazione Helianthus, ma anche a Larice, Gebbione, Archi. Non è un destino particolare quello dei Labate. Lavoriamo su tutte le articolazioni della ’ndrangheta, su tutte le manifestazioni di un fenomeno criminale che è universalmente ritenuto il più ricco e potente a livello mondiale».
«Vi prego di non dimenticarlo mai. Di non banalizzare mai ciò che ruota attorno alla ’ndrangheta. Perché la ’ndrangheta è questa. E in questo territorio ha la sua componente apicale, quella che prende decisioni a livello globale. Questo è un dato che deve essere costantemente evidenziato, senza mai agevolare le organizzazioni criminali con quel silenzio che troppo spesso accompagna il lavoro investigativo su quest’area».
«Primo dato: non diventi mai un’abitudine il fatto che arrivino risposte giudiziarie sul reato di associazione mafiosa. Perché investigare questi fenomeni è sempre più complesso, soprattutto quando il modo stesso di manifestare l’essere mafiosi si evolve».
«E si evolve soprattutto in relazione agli strumenti di comunicazione utilizzati: strumenti che diventano l’aspetto su cui si concentrano le indagini. Un uomo che non comunica è difficilmente investigabile. Quindi, non solo l’impegno è costante, ma è in crescita, perché gli indicatori di mafiosità cambiano, e le indagini ogni giorno si scontrano con difficoltà che aumentano in modo esponenziale».
«Abbiamo utilizzato molti collaboratori di giustizia, perché riteniamo che la voce dal di dentro di chi ha vissuto le dinamiche mafiose sia assolutamente indispensabile. Lo ha detto bene prima il collega Ignazitto: è la voce di chi ha vissuto certi sistemi e di chi ha subito i danni che quei sistemi producono – dai piccoli ai grandi commercianti, fino a chi, pur non avendo rapporti diretti con la mafia, vive in un contesto condizionato da logiche mafiose».
«Le logiche mafiose non sono un danno solo per chi è direttamente colpito, ma per chiunque viva in un’area in cui la libertà è compromessa da scelte che tutti siamo chiamati a contrastare con forza, ogni giorno, e non solo quando arriva una sentenza. Questo è ciò che ci ricorda l’operazione di oggi: che questa è una terra di ’ndrangheta come poche altre in Europa. E non è questo il destino che dobbiamo accettare».
«Il risultato giudiziario di oggi va difeso, consolidato, rilanciato. Domani, dopodomani, tra un mese, tra un anno. Perché ci ricorda che la ’ndrangheta vive, si arricchisce e condiziona la vita di ognuno di noi, nonostante la fragilità economica del territorio. E questo è un altro dato che va sottolineato».
«Perché – e lo dicono le statistiche europee – questo è forse il territorio economicamente più fragile d’Europa. E nonostante ciò, la ’ndrangheta continua ad operare qui, consumando condotte tipicamente mafiose, che vanno oltre il classico reato di estorsione. Perché i fini che persegue non sono solo predatori: sono fini di controllo, di assoggettamento costante. L’obiettivo è mantenere il territorio in una condizione di dipendenza, in cui il singolo operatore economico non è più libero di scegliere.
«Ed è proprio questo che noi siamo chiamati a contrastare, ricostruendo condotte associative e offrendo risposte concrete a chi ha scelto di restare in questa terra, anche per opporsi alle logiche mafiose. L’ultimo aspetto che voglio sottolineare è che questa operazione – come già detto da chi mi ha preceduto – mette drammaticamente in evidenza il circuito relazionale di cui una famiglia come la cosca Labate gode nella città di Reggio Calabria. Un circuito relazionale che diventa determinante quando la ’ndrangheta deve dimostrare la propria forza».
«Perché la ’ndrangheta – inutile ribadirlo – vive di logiche unitarie, ma è un mosaico di articolazioni che portano avanti programmi comuni e programmi individuali, come accade in qualsiasi aggregato plurisoggettivo, anche al di fuori del crimine organizzato. Ed è questo che siamo chiamati a fare: comprendere qual è la linea evolutiva di questi gruppi, che continuano ad espandere presenza e potere».
«Siamo chiamati a individuare i circuiti relazionali di cui beneficiano. Perché c’è un concetto che – secondo me – non è sufficientemente definito: è il concetto di indotto mafioso. Cioè, quella ampia schiera di soggetti che non sono ’ndrangheta, ma vivono secondo logiche di ’ndrangheta. Lo ribadisco: non sono affiliati, ma si avvantaggiano delle attività della ’ndrangheta su determinati territori».
«Ecco perché l’investigazione deve essere costante. Perché dobbiamo sempre saper distinguere ciò che è penalmente rilevante da ciò che non lo è. La strategia della confusione nei ruoli va assolutamente evitata, per non rischiare una criminalizzazione al buio, che sarebbe non selettiva e quindi ingiusta».
«La Calabria è una terra di persone perbene, a cui bisogna dare risposte chiare, nette, senza ambiguità. A questo servono i progetti investigativi che non si interrompono. A questo serve ricordare che nel luglio 2007 abbiamo eseguito l’operazione Gebbione, che nel 2000 c’era stata l’operazione Larice, e che oggi, dopo 25 anni, siamo ancora qui a portare avanti il nostro lavoro.
«Perché questa terra merita risposte continue, per consentire alle persone perbene che scelgono di viverci di non temere più le logiche mafiose».