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Ci sono città che fioriscono attorno a un teatro, che costruiscono comunità dentro un auditorium, che trovano riscatto in una sala prove. E poi c’è Reggio Calabria. Una città che produce talento come se fosse un frutto spontaneo della terra, ma che non sa – o non vuole – costruire il vaso in cui farlo crescere. Qui la cultura esiste, pulsa, combatte. Ma spesso lo fa per inerzia, per rabbia, per orgoglio. Raramente perché qualcuno le ha davvero fatto spazio.
È un destino testardo quello che lega artisti e creativi reggini alla loro città. Una città dove i luoghi della cultura sono sempre meno. Spazi chiusi, assenza di centri culturali pensati per accogliere, formare, restituire. Chi vuole fare teatro, suonare, creare, ha due opzioni: o se ne va, o resta e lotta. E in molti hanno scelto di restare. Ma a caro prezzo.
Perché si, grazie a Dio ci sono il Teatro Cilea – pubblico e comunale con stagioni teatrali portate avanti da artisti di buona volontà -, il Teatro Odeon – privato e che sta vivendo una seconda primavera grazie ad una direzione artistica lungimirante -, ed una serie di saloni parrocchiali che cercano di sopperire alla carenza di spazi pubblici per tutte quelle compagnie e quelle realtà, amatoriali o professionali, che cercano casa.
C’è chi ha cominciato in un quartiere popolare, trasformando una stanza qualsiasi in una sala, un parcheggio in foyer, un sogno in abitudine. Chi porta avanti stagioni teatrali tra mille difficoltà logistiche. Associazioni che con mille sacrifici creano piccoli spazi culturali di resilienza Chi inventa festival senza sapere dove li potrà fare l’anno dopo. E poi ci sono i giovani artisti che, pur premiati altrove, scelgono di tornare e raccontare la loro città. La portano nella voce, nei gesti, nei sorrisi. La trasformano in musica, comicità, racconto. Ma trovano porte troppo spesso chiuse, bandi che non guardano alle loro esigenze, disattenzioni istituzionali di decenni ad ogni livello che non conciliano con la “fragilità” della potenza della loro arte.
Non si tratta di chiedere favori. Nessuno vuole carità. Chi lavora nella cultura, oggi, è già abituato a fare tutto con niente: scenografie con materiali riciclati, promozione con il passaparola, prove fatte di notte perché di giorno si lavora altrove. Ma tutto questo non può diventare normalità. Perché a lungo andare logora, spegne, fa passare la voglia. E allora il rischio è che la città perda la sua voce più autentica. Quella che non ha padroni, né padrini. Quella che non vende, ma regala.
Eppure, Reggio continua a essere viva. La città ha comici che vanno in tv partendo dai quartieri, musicisti che studiano lontano e tornano a esibirsi sotto casa, operatori che formano nuove generazioni credendo ancora che il teatro, un giorno, potrà tornare a essere centrale. Nonostante tutto. Ed è proprio questo “nonostante” a fare la differenza. È una resistenza dolce, quotidiana, testarda. Un atto d’amore.
Ma l’amore, da solo, non basta. Servono spazi veri, aperti, stabili. Servono politiche e programmazioni sinergiche tra pubblico e privato. Meno fast food e più cultura: serve una visione. Perché la cultura non è intrattenimento: è coesione, bellezza, economia. È l’unico antidoto possibile all’apatia, al silenzio, alla rassegnazione.
Oggi a Reggio ci sono artisti che recitano tra le sedie di plastica, attori che fanno tournée senza avere un teatro in città da chiamare casa, progetti che parlano all’Europa ma faticano a trovare una stanza nel proprio territorio. Questa è la realtà. Eppure, nessuno si ferma. Si continua. Perché quando si ha qualcosa da dire, lo si dice lo stesso. Anche senza microfono. Anche senza palco.
Ma per quanto ancora?
Per quanto potrà resistere una città che ascolta i suoi figli ma non li accoglie? Per quanto si potrà fingere che basti la buona volontà? La risposta non può più aspettare. Perché ogni giorno che passa senza uno spazio in più, è un talento in meno che se ne va. E ogni teatro vuoto è un futuro che si spegne.

