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«Quando i migranti eravamo noi. 8 agosto 1956. Braccia in cambio di carbone». Con queste parole il consigliere metropolitano Michele Conìa, delegato ai Beni Confiscati, Periferie, Politiche giovanili, Immigrazione e Politiche di pace, ha voluto ricordare il dramma della strage di Marcinelle, nella quale persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani, moltissimi dei quali provenienti dalla Calabria.
A sessantotto anni da quel tragico giorno, la Città Metropolitana di Reggio Calabria rinnova il proprio impegno nel mantenere viva la memoria di un evento che ha segnato la storia dell’emigrazione italiana nel secondo dopoguerra.
«Erano le 8.10 dell’8 agosto 1956 – ricorda Conìa – quando, nella miniera Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, un cortocircuito provocò un incendio che si propagò rapidamente, facendo divampare 800 litri di olio in polvere e incendiando le strutture in legno. Il montacarichi, avviato al momento sbagliato, colpì una trave d’acciaio dell’alta tensione. Fu una tragedia: 262 operai morti, provenienti da 12 nazionalità diverse».
La maggior parte degli italiani coinvolti erano emigranti del Sud: in particolare da Reggio Calabria, Cosenza, San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, dalla Sila e dal Marchesato di Crotone. Uomini spinti dalla necessità, dalla speranza e da un accordo tra Stati che aveva il sapore della disperazione: braccia in cambio di carbone.
Tra il 1946 e il 1956, più di 140mila italiani si trasferirono in Belgio per lavorare nelle miniere della Vallonia. Il patto tra i due Paesi prevedeva l’invio di 2mila uomini a settimana dall’Italia in cambio di 200 kg di carbone al giorno per ogni minatore impiegato.
Oggi, la miniera di Bois du Cazier è patrimonio UNESCO e l’8 agosto è stato proclamato Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo, per ricordare – come sottolinea la nota della Metrocity – «l’amarezza della partenza, la nostalgia per la propria terra, le discriminazioni e la speranza di un futuro migliore».
«Un Paese – conclude Conìa, citando Cesare Pavese – vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti».