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La partenza è fissata per le 4 del mattino, sei ore con un treno interregionale che costa poco ma che fino a Torino si ferma anche nell’iperspazio immobile della pianura Padana. Fa già molto caldo, non ho portato con me nemmeno una bottiglietta d’acqua e se mi rivolto le tasche ho appena i soldi per prendere il biglietto – che negli anni ’90 ci toccava fare la fila allo sportello, mica come ora che i biglietti li prendi senza alzare il culo dal divano – quelli per un paio di pacchi di Diana rosse (che oggi si fuma assai, me lo sento) e quelli per tornare indietro. Di mangiare non se ne parla neanche, poco male. Oggi ci giochiamo l’Olimpo, chi ci pensa a mangiare. Il sole brucia, il caldo aumenta, il treno continua a fermarsi ad ogni stazione. E ad ogni fermata, anche la più insignificante, succede la stessa cosa. Una volta è un gruppetto di universitari fuori sede come me. Un’altra una famiglia con i bambini che dormono. Un’altra ancora un signore dalla faccia assonnata o una coppia di anziani tirati a lucido. Trovano posto sul treno che avanza lento e pur essendo tra loro diversissimi, sono tutti segretamente legati tra loro e tutti, proprio tutti, hanno qualcosa di amaranto addosso, anche i bambini.
È il 13 giugno del 1999, un quarto di secolo fa, con il Toro ci giochiamo la nostra prima serie A, e quel treno di sconosciuti in viaggio verso il Piemonte si trasforma presto in una succursale di Reggio in movimento. Su quel treno finiscono le varie anime di una città (di una provincia, di una regione) dissanguata da una migrazione che ha ripreso piede e che da allora non ha fatto altro che peggiorare. Lo studente e il professore, l’operaio e l’ingegnere: tutti catapultati lontano dallo Stretto, tutti riuniti su un treno sghembo a inseguire un sogno che sembra impossibile. Una marea festosa che al ricordo doloroso di Pescara preferisce il faccione di pietra di “Maciste” Bolchi.
«Non c’è nenti, figurati si vincimu a Torinu…». «Vincimu 2-1, cussì signa puru Ferrante e simu tutti cuntenti». Sotto lo stadio la fila per il biglietto è disordinata e annientata dal caldo. L’amaranto domina ovunque, difficile distinguerci tra noi e quelli del Toro che comunque sono amici e di problemi non ce sono. Dentro l’astronave costruita per Italia ’90 l’atmosfera è elettrica, i seggiolini tutti occupati da un’unica marea rosso cupo. La Maratona ribolle ma solo una parte dello stadio risponde ai cori. L’altra metà è la nostra. Il Toro è già in serie A, a noi tocca vincere che dietro di noi sgomitano. Sanna abbatte Cozza in area, il rigore è una formalità per il Capitano. Pareggia Ferrante. Tutto previsto dall’anonimo tifoso sul treno. Non ho molti ricordi di quella partita, troppa tensione. Ricordo il mio amico Fabio (trovato per caso su quel treno di terroni in trasferta) che a metà del secondo tempo mi stringe il braccio mentre accendo l’ennesima sigaretta. Possanzini, quel tipo pelato pescato in C2 che quando parte non lo prendi mai, ha stoppato un pallone in area che dopo un rimpallo finisce sui piedi di Tonino Martino, che una corsa come quella sotto la curva non l’aveva mai fatta in carriera. Viene verso di me, nel suo urlo c’è l’urlo di 20 mila persone.
Mi risveglio sudato e inquieto. Sono passati 25 anni, da quel giorno di giugno siamo falliti due volte e tante cose sono cambiate, quasi sempre in peggio, a Reggio e nel mondo del calcio. Riprendiamo dal gradino più basso. Un passo alla volta, che tanto quel treno, se mai ripassasse, non avremmo problemi a ricoloralo di amaranto.
(Barney p)

