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«Rivogliamo la tradizione, la storia, il marchio e la denominazione». Quel coro, nato nella Curva Sud due anni fa, oggi rimbomba come un promemoria che nessuno può ignorare. Dietro quelle parole c’è una radice che affonda nei ricordi delle famiglie, nelle domeniche vissute fianco a fianco allo stadio, nel sogno della Serie A, nei sacrifici della Serie C e nella tenacia di chi, pure in Serie D, non ha mai abbandonato i colori amaranto.
Eppure, in queste settimane roventi, la piazza ha ricevuto poco o nulla. Tra video social di chi dice di voler prendere la squadra per poi girare i tacchi e richiami continui a PEC formali che ancora non arrivano, il mercato resta un terreno di nessuno. L’attuale società fatica a comunicare, ad appassionare, a muovere quei passi concreti che la città si aspetta. Parole d’amore per la Reggina se ne sono sentite fin troppe; prove d’amore, poche. Intanto il tempo scorre, la Serie D incombe e il mantra della “settimana decisiva” si ripete senza fine.
Ma senza un centravanti di spessore, senza esterni titolari, senza un centrale di ferro, senza giocatori veri, insomma, si rischia di gettare al vento un’altra stagione. Perché questo campionato non si vince con i se, con le attese o con la sostenibilità brandita come scudo, né con proclami estemporanei di chi considera l’amaranto una passerella.
La Reggina si vince con l’appartenenza. Quella che non si compra, non si improvvisa e non si dimentica e che, prima o poi, chiederà il conto a chi l’ha trattata come un oggetto qualsiasi e non come quello che è: il pane quotidiano di un popolo.

