Tutti gli articoli di L'editoriale
PHOTO
Ci sono immagini che raccontano più di mille parole. E a Reggio Calabria, nella giornata in cui il ministro Matteo Salvini ha rilanciato il progetto del Ponte sullo Stretto fra le mura del massimo palazzo delle istituzioni, quella immagine è arrivata proprio alla fine: i “bacioni”. Quei bacioni che hanno reso “personaggio” il Salvini oggi Ministro, e che ha lanciato verso i manifestanti, un centinaio, radunati dietro le transenne davanti alla Prefettura.
Un gesto quasi teatrale, e che qualcuno – stizzito – ha definito da dodicenne più che da Ministro. Ma che dentro porta molto più di una battuta: c’è il potere che irride, e una piazza che non incide più. La scena si consuma nel tardo pomeriggio, dopo ore di vertici con istituzioni, forze dell’ordine e categorie professionali. All’uscita, il ministro non trova una folla inferocita o un muro umano pronto a contestarlo. Trova uno spicchio di protesta stanca, fatta di striscioni, voci note, e volti segnati da anni di battaglie che – seppur rumorose – non riescono più a diventare massa.
Quei “bacioni” sono un segno. Dicono che non teme più la piazza, che può anche prendersi gioco di chi lo contesta. È un gesto che non sarebbe stato possibile, forse, qualche anno fa. Un qualcosa che nel resto della civile Europa metterebbe i brividi. Ma che ieri, qui, è stato possibile. Perché quel dissenso, per quanto ancora sacrosanto e carico di contenuti, non riesce a imporsi visivamente, emotivamente, politicamente. E forse, per questo, quel gesto è ancora più grave.
Dentro la Prefettura, l’autocelebrazione del potere
Mentre fuori i manifestanti – seppur pochi – si facevano sentire con suoni, urla e slogan, all’interno della Prefettura di Reggio Calabria andava in scena un monologo istituzionale ben orchestrato. Matteo Salvini davanti alla stampa nazionale e locale ha parlato di «acceleratore di sviluppo», di un’opera che porterà «oltre centomila posti di lavoro», di cantieri pronti a partire entro l’estate 2025. Ha citato cifre, rassicurato sulla legalità, invocato la trasparenza totale contro le infiltrazioni mafiose. E poi ancora: «Grazie al Ponte, l’alta velocità arriverà a Reggio Calabria. Abbiamo già messo 3 miliardi sulla 106».
Un’autocelebrazione costruita per rassicurare, con l’obiettivo preciso di marcare un cambio di passo rispetto al passato: “loro hanno parlato per decenni, noi realizziamo”. Nessun dubbio, nessuna esitazione, nessun accenno al conflitto sociale che l’opera continua a generare. Tutto si muove sul piano dell’efficienza, dell’orgoglio e dell’eredità da lasciare. Ma la narrazione è a senso unico. Non c’è spazio per il dissenso, se non nella forma rituale di una presenza all’esterno. Il confronto con i territori non è previsto, né sollecitato. L’incontro, a detta di chi aspettava Salvini in piazza, non è stato un tavolo ma solo un ennesimo palcoscenico. E il pubblico, come in certe rappresentazioni, non è chiamato a partecipare, ma solo ad applaudire. O fischiare.
Una piazza che – purtroppo – non fa più paura
C’erano una decina di bandiere, qualche megafono, pochi striscioni. Niente cortei, niente assedio simbolico alla Prefettura, niente delegazioni in arrivo dai paesi limitrofi. La protesta c’era, ma non faceva rumore: un’occasione persa. E se in passato il solo annuncio di una visita ministeriale sul Ponte avrebbe mobilitato interi comitati, oggi restano presìdi fissi e militanti affaticati, costretti a ribadire posizioni già note, spesso ignorate. Il dato più evidente – e più inquietante – è l’assenza generazionale. In piazza quasi nessun giovane, nessuno che dia continuità a una battaglia storica, nessuno che raccolga il testimone. Le ragioni per dire no restano, ma manca la forza collettiva per gridarle. Manca la voce nuova, il ricambio, la spinta.
È solo paura? Solo rassegnazione? Solo sfiducia nei confronti di una politica che non ascolta? Forse è tutto questo insieme. La Calabria si sente ancora una volta spettatrice di un destino già scritto. E il potere, quando vede che nessuno lo incalza, risponde con un sorriso e due bacioni.
Gli espropriati parlano, il governo non risponde
Tra i pochi presenti in piazza c’erano anche le voci di chi rischia di perdere la propria casa, il proprio terreno, la propria storia. Rossella Blusei, presidente del comitato “TiTengostretto” di Villa San Giovanni, lo ha detto chiaramente: il ponte «è un pericolo ambientale incalcolabile. Gli espropriati potrebbero ritrovarsi costretti a un esodo vero e proprio». E se la città di Villa ancora oggi non ha dimenticato la ferita mai rimarginata del tunnel di Cannitello, è difficile credere che questa volta sarà diverso.
Insieme a lei, altri attivisti denunciano l’assenza di ascolto, la solitudine istituzionale, la paura di un cantiere che consumerà il territorio pezzo dopo pezzo. Nessuno ha mai cercato un vero confronto con chi dovrà lasciare casa o vivere accanto a piloni e recinzioni per anni. Gli indennizzi sono promessi, le tutele evocate, ma nel concreto prevale il vuoto. O così, o così.
Il silenzio del governo, al di fuori degli slogan, è assordante. Salvini parla di bonifiche, progettazione, espropri “con abbondanti compensazioni”, ma nessuno dei diretti interessati è stato convocato né coinvolto in processi partecipativi veri. La frattura non è solo logistica o urbanistica: è democratica. Si decide altrove, e si impone. Si cala dall’alto. Anche questo fa parte del modello di sviluppo promesso: prendere o subire.
Legalità annunciata e contraddizioni di potere
La parola “legalità” ha dominato il discorso di Salvini. Ha parlato di controlli rafforzati, di attenzione massima alle infiltrazioni mafiose, di una cabina di regia composta da prefetture, procure, forze dell’ordine. Ha detto: «Nessun euro finirà nel posto sbagliato». Ma a chi si oppone, queste rassicurazioni appaiono come slogan più che come garanzie.
Enzo Musolino, segretario del PD di Villa San Giovanni, lo ha sottolineato con durezza. «Salvini arriva tardi, dopo aver deciso tutto da solo, con decreti autoritari. Solo ora si ricorda dei territori». Lo stesso circolo del PD locale, insieme al comitato “TiTengostretto”, ha già depositato una denuncia in Procura contro il rischio concreto di infiltrazioni. Eppure nessuno dei firmatari è stato ascoltato.
Saverio Pazzano, consigliere comunale di Reggio Calabria, rilancia la stessa preoccupazione. Il Ponte «È un’opera piena di criticità, senza interlocuzione democratica, che calpesta i consigli comunali e i diritti della cittadinanza». E mentre Salvini si mostra ottimista e risoluto, resta il sospetto – condiviso da più fronti – che l’interesse vero sia far partire i primi cantieri, movimentare terra, generare flussi economici, più che completare davvero l’opera.
A Reggio, come altrove, la legalità dichiarata diventa credibile solo se chi ha dubbi viene ascoltato. Ma ieri, anche questo, non è accaduto.
La solitudine del dissenso
Alla fine, non è solo il Ponte a dividere. È la distanza profonda tra chi decide e chi subisce, tra chi promuove un’opera come volano per l’Italia e chi la vive come minaccia per il proprio presente. Ma ieri, a Reggio Calabria, quella distanza si è fatta quasi muta. Il dissenso era lì, ma non faceva paura. Era vero, ma non faceva massa.
E allora il gesto di Salvini – quei bacioni mandati ai manifestanti – diventa il simbolo perfetto di un tempo nuovo: non più quello dello scontro, ma quello dell’indifferenza costruita sul vuoto. Il governo parla da solo, la protesta si ripete senza forza, e i giovani, soprattutto loro, non ci sono più.
È finita la rabbia? O è subentrata la paura? È calato il consenso? O si è solo spenta la speranza? Di certo, a rimanere impressa è una piazza che sarebbe dovuta essere piena, stracolma, urlante e trabordante, ma che non riesce più a raccontare una battaglia. E quando accade questo, è il potere a vincere senza combattere.