giovedì,Gennaio 23 2025

Maranathà, fiaccole accese attorno alle mura del carcere di Reggio per alimentare la speranza – VIDEO

Cvx ha rinnovato il suo tradizionale appuntamento con la veglia di preghiera animata quest’anno anche dal Manifesto utopico della buona galera. Migliorare le condizioni carcerarie non solo è possibile ma è anche necessario

Maranathà, fiaccole accese attorno alle mura del carcere di Reggio per alimentare la speranza – VIDEO

Si è levata leggera, intorno alle mura del carcere Giuseppe Panzera di Reggio Calabria, una preghiera. Un canto di speranza mosso dall’aspirazione a volare alto, oltre le imponenti e invalicabili inferriate, per raggiungere la popolazione detenuta in questo tempo in cui l’isolamento, la lontananza, il senso di abbandono e la solitudine si acuiscono. Una fiaccolata, partita dalla piazza antistante alla chiesa di San Pietro, ha accompagnato la preghiera che Cvx (Comunità di Vita Cristiana) di Reggio ha proposto nel segno del consueto monito Maranathà (che in aramaico invoca la venuta del Signore), per celebrare il Natale e l’arrivo del nuovo anno con chi si trova “dentro” il luogo di detenzione.

Aprire le porte, aprire i cuori

«Questo non deve essere considerato solamente un atto di devozione o un atto simbolico. Papa Francesco – ha sottolineato padre Sergio Sala della comunità di Padri Gesuiti – che ha aperto la seconda Porta Santa nell’anno del Giubileo nel carcere romano di Rebibbia, lo ha fatto chiedendo alle autorità degli sgravi di pena, una sorta di indulto che effettivamente possano aprire le porte del carcere. Ma questo riguarda il legislatore. Il Papa ci chiama a rendere reale questo gesto simbolico aprendo intanto il nostro cuore. Anche i detenuti, che non possono aprire altre porte possono aprire però quella del loro cuore.

Speriamo che quest’anno possa essere un anno di apertura, se non fisica, spirituale. Ognuno di noi sbaglia qualcuno, io dico, è fuori per caso e qualcuno è dentro per sfortuna. Ognuno di noi consideri fratello anche colui che vive in carcere. Ha commesso un crimine ma non è una persona da dimenticare o da lasciare lì. È un fratello da comprendere e perdonare», ha sottolineato padre Sergio Sala della comunità di Padri Gesuiti e assistente spirituale Cvx Reggio Calabria.

Dignità e umanità nelle carceri

Papa Francesco, anche in quest’anno giubilare, ha posto il carcere quale meta del suo santo pellegrinaggio e pure il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso di fine anno ha invocato «Rispetto della dignità di ogni persona, dei suoi diritti. Anche per chi si trova in carcere. L’alto numero di suicidi è indice di condizioni inammissibili. Abbiamo il dovere di osservare la Costituzione che indica norme imprescindibili sulla detenzione in carcere. Il sovraffollamento vi contrasta e rende inaccettabili anche le condizioni di lavoro del personale penitenziario. I detenuti devono potere respirare un’aria diversa da quella che li ha condotti alla illegalità e al crimine. Su questo sono impegnati generosi operatori, che meritano di essere sostenuti».

Il desiderio della Speranza

E partendo proprio dalla nostra Costituzione, dal suo nobile articolo 27– «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte» – si è articolata la riflessione al centro di questa veglia che si rinnova da oltre 30 anni. Una preghiera inusuale perché scandita da canzoni e non da canti liturgici e rivolta a persone che non hanno potuto assistere e ascoltare ma che hanno potuto “sentire”, percepire, immaginare.  Ci racconta cosa muove Cvx a promuovere questa iniziativa corale da decenni, Paola Schipani. Lei è una volontaria del gruppo Cvx che fa apostolato in carcere da 20 anni ed è anche impegnata con Romina Arena nei laboratori di lettura nella sezione di media sicurezza e dei protetti del carcere di Arghillà di Reggio Calabria.

«Dal 1993 per noi questo è un appuntamento al quale teniamo molto. Ci fu proposto allora dal nostro assistente di allora padre Vincenzo Sibilio, all’epoca cappellano dentro il carcere. Tradizionalmente lo organizziamo il 23 dicembre. La pioggia di quel giorno, quest’anno, ci ha costretti a posticiparlo di qualche settimana ma non abbiamo potuto e voluto rinunciare a portare fuori anche quest’anno le suggestioni e le riflessioni che noi raccogliamo durante il nostro servizio di volontariato. La veglia si fa prima in carcere e poi fuori, intorno alle sue mura, dove noi portiamo le intenzioni di preghiera dei detenuti che lo chiedono, diamo loro voce.

Spezzare il pane e versare il vino. Sempre.

Quest’anno il filo seguito è stato quello della Speranza, questo il desiderio emerso e che ogni anno è diverso. Parlare di Speranza senza rinfocolare luoghi comuni non è facile e non è neppure nello spirito del Giubileo che invita alla speranza che non illude e non delude. Dunque abbiamo cercato di parlare di quella speranza che si costruisce, che impegna ciascuno e che di fatto è un appello alle nostre coscienze».

A tessere la trama le canzoni, non canti liturgici, perché la parola di Dio vive ovunque alberghi un messaggio universale di fratellanza e di responsabilità del prossimo.

«Siamo partiti da Fabrizio De Andrè – prosegue Paola Schipani – e quel suo severo quanto vero giudizio al quale non ci possiamo sottrarre. “Anche se voi vi credete assolti, per poi proseguire con siete lo stesso coinvolti” della sua Canzone del maggio. Abbiamo continuato con Land of Hope and dreams di Bruce Springsteen a bordo di un treno popolato da anime perse, prostitute, contrabbandieri, santi e bravi cristiani. Ci stanno tutti e saliamo tutti perché la speranza è qualcosa che si costruisce insieme. Con Let it rain di Tracy Chapman, nella disperazione, nella solitudine più profonda accanto al senso di abbandono vive anche la speranza che “da qualche parte l’aiuto arriverà“. E poi la Tempesta di Angelo Branduardi perché siamo tutti nella stessa tempesta.

E a chiudere Il pescatore. Ancora De Andrè. Un non credente che parla del gesto eucaristico di spezzare il pane e versare il vino ad una persona che è già giudicata come assassino; una persona alla quale non si chiede perché e che cosa abbia fatto. Conta solamente che abbia fame e sete. Non si può fare altro, dunque, che versare il vino e spezzare il pane. Ecco questo è l’impegno: spezzare il pane, sempre».

Il Manifesto utopico della buona galera

Durante la fiaccolata, il cui tragitto per lavori in corso ha subito qualche modifica, alcune soste: la condivisione dei desideri delle persone detenute e delle suggestioni attorno alla “parola” e al “luogo”, l’ascolto di quanto le persone detenute avevano affidato, affinché fosse portato “fuori”, un momento per la giornalista italiana detenuta in Iran Cecilia Sala e la lettura del Manifesto utopico della buona galera.

«La buona galera non esiste. È una prospettiva del cuore, una intercapedine dell’indignazione. È lo sbrago nel silenzio, la voce che si ostina controventoLa buona galera non esiste, la si può solo immaginare, la si può solo costruire con un gioco della fantasia. La buona galera è il contrario di quello che c’è e per sostituire quello che c’è con quello che ancora non c’è bisogna osare l’utopia, spingere l’intelletto fino al varco coi mostri, prendere la seconda stella a destra e tracciare la via del possibile». Questo l’incipit del manifesto scritto da Romina Arena, educatrice alla lettura consapevole che con Paola Schipani cura i laboratori di lettura nella sezione di media sicurezza e dei protetti del carcere di Arghillà di Reggio Calabria.

«Dalla consapevolezza delle condizioni in cui versano le carceri italiane è nata la necessità di immaginare un’alternativa. Il Manifesto utopico della buona galera funge da strumento di propulsione per camminare verso questa utopia che non è impossibile ma ha bisogno di responsabilità, di attenzione, di coraggio. Il carcere dovrebbe essere un luogo di dignità, un luogo di speranza, un luogo di libertà, in cui la persona non sia riconosciuta solo per il reato che ha commesso – ha concluso Romina Arena – ma sia considerata a prescindere, come essere umano con il diritto di vivere e di ricostruirsi».

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