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9 agosto 1991: l’assassinio del giudice calabrese Antonino Scopelliti. Trent’anni senza verità e giustizia

Il sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte di Cassazione a settembre avrebbe dovuto rappresentare la pubblica accusa nel processo di appello avverso i ricorsi seguiti al maxiprocesso di Palermo

9 agosto 1991: l’assassinio del giudice calabrese Antonino Scopelliti. Trent’anni senza verità e giustizia

Sono passati trent’anni da quel giorno d’estate in cui la vita di un uomo, di un padre che oggi sarebbe stato nonno, di un marito, di un fratello, di un figlio, di un parente, di un amico, è stata spezzata e con essa anche il percorso professionale di un magistrato integro e incorruttibile che, con il suo lavoro indipendente e rigoroso, certamente avrebbe consegnato alla nostra Storia, assetata di verità, acqua fresca e limpida.

Sono passati trent’anni da quel 9 agosto 1991, quando il giudice calabrese Antonino Scopelliti, in vacanza nella sua Campo Calabro, rimase vittima di un brutale agguato mortale a Piale, tra Campo Calabro e Villa San Giovanni, nel comprensorio di Reggio Calabria. Era a bordo dell’auto e stava tornando a casa dal mare quando almeno due uomini in moto, armati di un fucile calibro 12 caricato a pallettoni. lo uccisero. Morì subito dopo. Un delitto, a distanza di trent’anni, non ha ancora avuto giustizia e verità.

La figlia Rosanna e il suo impegno

«Abbiamo sempre ritenuto che la grande nostra forza siano i giovani, e proprio a loro ci rivolgiamo per rafforzare il ricordo di un grande servitore dello Stato, cercando di valorizzare i loro talenti e spingerli a tornare in Calabria per offrire un contributo positivo per la ripresa». Così Rosanna Scopelliti, presidente della fondazione Antonino Scopelliti che quando perse il padre aveva solo sette anni. Anche in occasione del Trentennale dell’assassinio del padre, Rosanna ha promosso una serie di iniziative invitando a riflettere sull’importanza delle “Radici nel Futuro” e dell’impegno in questa terra e per questa terra.

«Sono ormai trascorsi 30 anni dal 1991 e non mi sottraggo al ruolo di figlia. In questo lungo periodo di attesa, non è venuto meno l’impegno da parte della magistratura e degli investigatori, però manca ancora la verità sul delitto, e una giustizia ritardata è una giustizia negata. Questo lungo lasso di tempo inizia a pesare sempre di più, non solo per noi familiari ma per tutta la nostra comunità che voleva molto bene a mio padre. Chiediamo tempi certi, per questo e per altri misteri ancora tali nel nostro Paese; sta passando troppo tempo», ha concluso Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione intitolata alla memoria del padre e oggi assessora comunale alla Cultura e alla Legalità di Reggio Calabria.

La storia professionale

Una brillante carriera di uomo di legge quella di Antonino Scopelliti. Pubblico ministero presso la procura della Repubblica di Roma, poi presso la procura della Repubblica di Milano, quindi procuratore generale presso la Corte d’appello e infine sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione. Si occupò di mafia e anche di terrorismo, rappresentando la pubblica accusa nel primo processo sul caso Moro ed in quelli relativi al sequestro dell’Achille Lauro, alle stragi di Piazza Fontana e del Rapido 904.

Tra i processi a lui affidati anche quello contro Cosa Nostra. L’estate del 1991 lavorava proprio al rigetto dei ricorsi avverso le condanne in appello presentati, dinnanzi alla corte di Cassazione, dagli imputati nel maxiprocesso di Palermo; il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per crimini di mafia iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 30 gennaio 1992, con la conferma di 19 ergastoli e di oltre 2600 anni complessivi di reclusione.

La storia giudiziaria

La Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria guidata dal procuratore capo Giovanni Bombardieri indaga ancora sulla morte di Antonino Scopelliti. Tra le persone iscritte al registro ci sono nomi di boss siculi del calibro del latitante di sempre, Matteo Messina Denaro, ricercato dal 1993 e c’è anche il pentito Maurizio Avola, al quale si devono rivelazioni decisive anche per la scoperta della verità su molti omicidi tra cui quello del giornalista Giuseppe Fava e che nel 2019 ha indicato il punto nelle campagne siciliane dove trovare l’arma del delitto del giudice calabrese. Sottoposta subito, su disposizione dalla Procura distrettuale di Reggio Calabria, ad una perizia della polizia scientifica, l’arma era però troppo segnata dal tempo per poter rivelare elementi utili e fornire solide conferme.

Nel 2012, dopo due decenni di silenzio, le dichiarazioni del pentito Antonino Fiume, nell’ambito dell’inchiesta Meta condotta dal sostituto procuratore della DDA reggina Giuseppe Lombardo, aveva aperto un nuovo spiraglio dichiarando che dell’agguato era responsabile un commando di affiliati alla ‘ndrina reggina dei De Stefano, assoldato da Totò Riina e dai corleonesi, minacciati dal processo ormai alle porte, per eseguire il delitto. Un omicidio in cambio del quale ci sarebbe poi stato un intervento pacificatore dei siciliani tra i due cartelli reggini De Stefano – Tegano – Libri e Condello – Rosmini – Serraino – Imerti che avevano insanguinato le strade di Reggio con 700 morti durante la seconda guerra di mafia alla fine degli anni Ottanta.

Sulla centralità di questo delitto nella storia criminale di questa terra si era espresso anche Salvatore Boemi, magistrato che per decenni ha contrastato la criminalità organizzata e che dal 1993 al 2001 fu a capo della Direzione Distrettuale Antimafia reggina, ricordando che “negli anni 1993 e 1994 tra i tre processi che impegnavano la Dda di Reggio Calabria, insieme al processo Olimpia, sulla seconda guerra di mafia reggina, e al processo per la morte di Lodovico Ligato, vi era proprio il processo per l’assassinio di Antonino Scopelliti”. Nell’ambito di questo venne accertato l’asse ndrangheta – cosa nostra che nulla avrebbe avuto da guadagnare dalle condanne che quel maxiprocesso certamente avrebbe procurato e che dunque avrebbe cercato e trovato nei calabresi dei validi alleati per quell’irreversibile e sanguinoso disegno criminale.

Il convincimento diffuso secondo il quale il delitto Scopelliti fosse esito di un agguato mafioso, frutto di un accordo tra cosa nostra e ‘ndrangheta, nonostante le numerose dichiarazioni dei pentiti, in realtà non ebbe mai un volto né il crisma di una verità giudiziaria definitiva. Si susseguirono nel tempo le conferme di questo assetto, grazie a numerose deposizioni di pentiti in altri processi, durante i quali si riferì anche del delitto Scopelliti. Ad oggi ancora nessuna verità è stata accertata.

Giovanni Falcone in Calabria per rendere omaggio al collega

Il 17 agosto 1991 sulla Stampa, Giovanni Falcone, che nell’immediatezza del fatto era sceso in Calabria per manifestare vicinanza ai familiari, rese pubblico il suo pensiero sull’omicidio del collega, segnalando il possibile collegamento tra Cosa Nostra siciliana e ndrangheta calabrese e soprattutto facendo riferimento al maxi processo che stava per celebrarsi in Cassazione: «L’eliminazione di Scopelliti è avvenuta quando ormai la Suprema Corte di Cassazione era stata investita della trattazione del maxiprocesso alla mafia palermitana e ciò non può essere senza significato. Anche se, infatti, l’uccisione del magistrato non fosse stata direttamente collegata alla celebrazione del maxiprocesso davanti alla Suprema Corte, non ne avrebbe comunque potuto prescindere, nel senso che non poteva non essere evidente che quell’omicidio avrebbe pesantemente influenzato il clima dello svolgimento in quella sede», si legge sul volume “Nel loro segno”, curato dal Consiglio Superiore della magistratura nel ricordo delle vittime del terrorismo e delle mafie il 9 maggio 2011.

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