Si snoda tra lo sfarzo di Roma e il carcere degli Scalzi di Verona, tra il 1930 e il 1944, la vicenda umana e sentimentale di Galeazzo Ciano ed Edda Mussolini. Vicenda che necessariamente si intreccia con la storia del Fascismo in Italia. Lo scrittore Mimmo Gangemi rivendica di avere scritto un romanzo innanzitutto di amore che non ha potuto esimersi dall’essere anche un romanzo a tinte storiche. “A me la gloria. Edda e Galeazzo, due destini, un amore, la guerra che sconvolge il mondo ”, edito da Solferino nella collana Affreschi, è il titolo.

E infatti questo romanzo è un affresco. Un affresco inedito di Galeazzo ed Edda, tracciato dalla fine penna dello scrittore postosi dalla loro angolazione per raccontare la loro storia d’amore e, attraverso di essa, anche la storia dell’Italia Fascista. Protagonista è Ciano, «uomo ambivalente», lo definisce Mimmo Gangemi, debole con il (suocero) Duce del quale ambiva ad essere il successore, capace di sacrificare ogni sua buona idea sull’altare di quella stessa ambizione che dà poi anche corpo al titolo del romanzo.

Protagonista dei caffè letterari del Rhegium Julii, nella cornice del circolo del tennis Polimeni di Reggio Calabria, il romanzo è stato al centro della conversazione tra Mimmo Gangemi, il presidente del circolo Rhegium Julii, Giuseppe Bova, la professoressa Florinda Minniti e la scrittrice e attrice Daniela Scuncia.

Da Ettore Majorana a Galeazzo Ciano

«Un lavoro di documentazione imponente che a un certo punto mi aveva anche scoraggiato. È sicuramente il romanzo più impegnativo da questo punto di vista. Ho attinto da documenti storici, di destra e di sinistra. Dai Diari di Ciano solo la collocazione di alcuni eventi. L’idea di una storia, di un romanzo, che mai scrivo come l’intento di farne un film o di dare corpo a una sceneggiatura, nasce in un attimo, in un lampo. In questo caso il lampo è arrivato quando per Ettore Majorana, protagonista dell’Atomo inquieto studiai l’Alto Adige che Ciano avrebbe voluto libero dagli allogeni tedeschi», racconta Mimmo Gangemi.

Se Benito Mussolini, fu indubitabilmente il Duce, ed esso stesso il Fascismo, chi fu Galeazzo Ciano per la storia? Lo abbiamo chiesto a Mimmo Gangemi.

Dalla diplomazia alla politica

«Nell’orizzonte di Ciano non c’era la politica ma la carriera diplomatica, iniziata all’ambasciata di Rio De Janeiro, prima, e di Pechino, dopo, sempre come secondo segretario. Il rientro in Italia nel gennaio del 30 cambia tutto. Essa si imbatte nel suo destino, deviandone drasticamente la direzione. Quelle idee iniziali, orientate verso la diplomazia, dirottano sulla politica. Non intendeva essere un politico, ma un diplomatico e diventare ambasciatore in una grande nazione, preferibilmente nella Gran Bretagna. Il politico in famiglia era Costanzo Ciano, il primo Conte di Cortellazzo per meriti di guerra a nomina del Re. Ciano è, dunque, un personaggio che ha ben altre mire nella sua vita. Poi l’attimo in agguato, l’ombra nefasta che stravolge i suoi piani.

Nel1930 in una festa a Roma si imbatte in Edda. I due si innamorano e in meno dei tre mesi arrivano al matrimonio. Lì l’ambizione politica che fino al quel momento non gli apparteneva, comincia lentamente a insinuarglisi dentro fino ad affermarsi, una volta tornato dalla Cina, dove con Edda come console a Shanghai aveva vissuto.

Edda e l’ombra scura del Duce

Ecco Edda fu per lui, dunque, il suo attimo in agguato. Lo attese al varco per mutare un destino che pareva già tracciato. L’ombra più oscura in cui imbatte è il padre di Edda Mussolini, Benito, il Duce. Ma la sua ombra fu specialmente sé stesso. Inizia a nutrirlo un’ambizione che non credeva di avere e che lo avvicina alla politica, convincendolo molto presto di poter diventare il successore dei Mussolini, di poterne incarnare la continuità. E questo dannerà i suoi giorni».

Il sopravvento dell’ambizione

In questa descrizione di Mimmo Gangemi, nel momento dell’entrata in guerra dell’Italia, si evince questa accondiscendenza viziata dall’ambizione.

«Ciano fu poi accanto al Duce durante il discorso dal balcone di Palazzo Venezia. L’eccitazione festante della folla oceanica gli indusse d’aver sbagliato a ritenere che la nazione bramasse pace. O forse no. Non sapeva, non era più sicuro di niente. Qual era la nazione? Questa che acclamava o quella che aveva invaso le strade gioendo per la neutralità? Tutt’e due, si rispose. Stesse persone e due opposte manifestazioni. Il Duce, con le sue parole roboanti e pregne di conquiste e di fortune in attesa d’essere colte, a dirottarli, a trascinarli con sé.

“Foglie secche d’autunno al soffio del vento” pensò. Ritrattò: più che fascisti, erano mussoliniani, il fascismo era Mussolini. Intanto, il suo posto era al caldo ad attenderlo, sarebbe stato il successore in caso di vittoria. E, a calcolare bene le mosse, anche in caso di sconfitta. Era il volto presentabile del regime. Il fascismo stesso, in mano sua che l’avrebbe indirizzato verso forme più liberali, sarebbe sopravvissuto». È ingenuo, Ciano, come lo sarebbero stati anche Bottai, Grandi e gli altri nella lunga notte della fine del regime.

Il sacrificio vano di idee giuste

Le idee di Ciano erano giuste ma la sua ambizione lo rese preda del volere del Duce.
Non era a favore delle leggi razziali, pur avendo votato favorevolmente. Riteneva che l’Italia non fosse pronta ad entrare in guerra ma dovette assistere passivo, accanto al Duce al momento del suo discorso da palazzo Venezia nel giugno del 1940. Non avallava l’alleanza con la Germania, lui che prima ambiva a diventare un ambasciatore della Gran Bretagna, eppure si ritrovò a dover firmare il patto d’Acciaio a Milano con il ministro tedesco Von Ribbentrop. A questo proposito Mimmo Gangemi ha inteso riportare delle circostanze che descrivono la misura del livello di pressione e condizionamento e anche dell’assurdo capriccio con cui il Duce trascinò l’Italia nel disastro della Seconda Guerra mondiale.

I fischi al ministro tedesco Von Ribbentrop e la lesa maestà del Duce: così l’Italia entrò in guerra

«I giornali americani riportano in prima pagina i fischi della popolazione al ministro degli Esteri della Germania nazista Von Ribbentrop per le strade di Milano. Il Duce si risente. Sente leso il suo prestigio da quell’immagine del popolo che non accoglie il ministro del Paese con cui si sta per alleare. Chiama subito Ciano, che sta trattando e resistendo all’alleanza, e gli ordina di firmare. A nulle valgono i tentativi di Ciano di opporsi, rilevando che non c’erano le clausole fondamentali come i tre anni senza smuovere guerra perché l’Italia non era pronta, la questione dell’Alto Adige a maggioranza tedesca e a rischio di occupazione tedesca come il Sudeti in Cecoslovacchia. Il Duce è inamovibile e Ciano firma. Dunque un mutamento umorale del Duce condiziona la firma del patto d’Acciaio. Un’offesa personale al Duce trascina l’Italia nella rovina della Seconda guerra mondiale».

Ciano si sente un predestinato e accetta supinamente ma non senza vedere scemare la sua venerazione per il suocero. Da uomo carismatico ai suoi occhi Mussolini inizia, infatti, a mostrarsi come succube di Hitler. Il primo punto di svolta risale al voto per le legge per la difesa della Razza. Il primo di una lunga serie di eventi che inizia a farlo dubitare della capacità del Duce di essere guida illuminata della Nazione. Quella venerazione sarebbe diventata disprezzo – racconta Mimmo Gangemi – anche se sempre lo avrebbe assecondato senza mai riuscire a contrastarlo».

Tutto questo fino alla notte tra il 24 e il 25 luglio 1943 quando anche lui toglierà la fiducia al Duce durante la storica seduta del Gran Consiglio del Fascismo. «Ingenuamente credeva ancora di potergli succedere con un rimpasto di governo o con un nuovo governo capace di far convergere anche le anima dissenzienti». Invece quella scelta che gli costa la vita. Consegnato dalla Repubblica Sociale alla polizia, viene incarcerato a Verona e fucilato l’11 gennaio del 1944.

Ma proprio in quel buio senza più spiragli Edda dimostra di esserci sempre stata, nonostante i tradimenti reciproci, nonostante le asprezze e i periodi di lontananza. Lei c’era e c’era sempre stata al punto da «mettersi contro tutti per salvare il marito dalla morte. Contro il Duce, suo padre, contro Hitler per difendere i suoi diari. «Deve poi scappare con i figli in Svizzera per mettersi in salvo. Quell’amore come una gramigna aveva resistito fino alla fine». Mimmo Gangemi celebra questo amore con una immagine molto intensa affidata alle parole che sono anche nella quarta di copertina del libro quando descrive l’ultimo saluto prima dell’arresto per alto tradimento.

«L’abbraccio con cui lo avvolse Edda conteneva la sconfitta e i rimproveri a sè stessa per aver fallito, l’umiliazione di figlia, i rimorsi di moglie e di madre. I pugni picchiati sul petto del marito odoravano d’ostinazione e di rabbia. I figli raccolti attorno a loro due e stretti a pigna tracciavano i confini della famiglia, da lì in avanti non si sarebbe allargata oltre. Mai erano stati uniti come in quei momenti».