L’Alzheimer non è più una diagnosi senza vie d’uscita. La medicina sta tracciando una nuova rotta nella gestione di una delle principali malattie neurodegenerative legate all’invecchiamento. Se la rivoluzione terapeutica non è ancora compiuta, oggi esiste una strada concreta che passa da diagnosi più precoci e dall’arrivo di farmaci capaci di rallentare la progressione della malattia.

«Esistono oggi criteri per una diagnosi biologica dell’Alzheimer», spiega il professor Luca Roccatagliata, neuroradiologo presso l’IRCCS Ospedale Policlinico San Martino e docente all’Università di Genova, intervenuto al Congresso Nazionale della Neuroradiologia AINR. La diagnosi si basa su biomarcatori specifici, come quelli rilevati tramite PET o con analisi del liquido cefalo-rachidiano. E oggi, grazie ai nuovi sviluppi, iniziano a essere disponibili anche test diagnostici su sangue, già approvati dalla FDA americana.

Un cambiamento potenzialmente decisivo, poiché questi biomarcatori possono rilevare la malattia anche 15-20 anni prima della comparsa dei sintomi. Un recente studio pubblicato nel 2024 sul New England Journal of Medicine ha confermato l’efficacia dei test nella rilevazione precoce delle modificazioni patologiche.

Parallelamente, si registrano i primi segnali positivi anche sul fronte terapeutico: la FDA ha approvato due anticorpi monoclonali capaci di agire sulle placche amiloidi cerebrali, rallentando in parte la progressione del declino cognitivo. «Non si tratta ancora di una cura definitiva, ma è un passo avanti decisivo. È la fine del nichilismo terapeutico», sottolinea Roccatagliata.

Decisivo in questo scenario il ruolo della neuroradiologia, che resta centrale nella selezione dei pazienti e nel monitoraggio degli effetti collaterali delle nuove terapie, tra cui le ARIA (Amyloid-related imaging abnormalities), alterazioni visibili alla risonanza magnetica, perlopiù asintomatiche, ma che richiedono un attento controllo.

«Siamo in una fase di transizione», conclude Roccatagliata. «Con l’avanzare della ricerca e la maggiore accessibilità degli strumenti diagnostici, possiamo davvero iniziare a costruire un percorso efficace per affrontare l’Alzheimer nei prossimi anni».