Tra i filari della Tenuta Altomonte, tra i colori caldi della campagna di Palizzi e l’odore di terra e di mosto andato, la vita è tornata. Una vita vera, fatta di abbracci, di mani che si stringono, di bambini che corrono, di donne che ridono. Una vita che per molte di loro sembrava scomparsa. Eppure, in una semplice domenica di giugno, calda da sembrare quasi agosto, il silenzio si è riempito di musica, i vuoti si sono fatti pieni di colori e le ferite, per qualche ora, sono state curate dalla tenerezza di un gesto, dalla forza di un incontro, dalla magia di una risata.

C’è stato un pomeriggio, in un angolo di Calabria – e proprio nella punta più a sud dove i Greci migliaia di anni fa fondarono la nuova patria – in cui la felicità è diventata un atto di giustizia, un diritto fragile e potentissimo. Un pomeriggio in cui, donne fragili – con o senza figli minori – che si trovano in condizioni di difficoltà, hanno potuto semplicemente essere: persone, madri, amiche, creature libere. Non più solo numeri o statistiche, ma esseri umani con una storia, una voce, una possibilità.

La Fondazione Antonino Scopelliti ha spalancato le porte della campagna e ha detto: entrate. Lo ha fatto insieme alla Casa Accoglienza e Centro Suor Antonietta Castellini della Piccola Opera Papa Giovanni, portando tra i vigneti e gli ulivi donne che hanno conosciuto il silenzio, l’isolamento, la paura, e i loro bambini. Ha spalancato non solo i cancelli della (e con la) Tenuta Altomonte, ma anche uno spazio simbolico, fatto di accoglienza e di empatia, di ascolto e di presenza.

È stata una giornata di libertà, ed è sembrata una rivoluzione. Hanno ballato, hanno cantato, hanno urlato. Hanno lasciato andare il dolore, l’hanno preso per mano e lo hanno spinto via anche solo per un’ora. E mentre i piccoli si lanciavano nelle bolle di sapone create dai ragazzi dell’animazione di Damaride di Tamara Galesi, mentre saltavano nei giochi colorati, le madri li guardavano, li seguivano con gli occhi e capivano che anche per loro, oggi, esisteva una cosa chiamata gioia. Un luogo dove ogni bambino ha potuto essere solo questo: un bambino. E dove ogni madre ha potuto sentirsi, finalmente, semplicemente viva.

«Dobbiamo parlare di più degli orfani di femminicidio», ci spiega Rosanna Scopelliti, presidente della Fondazione, guardandoli all’ombra delle viti. «Sono bambini che perdono tutto: la mamma, il papà, la casa, la rete affettiva. Vanno sostenuti a livello psicologico, giuridico, umano. E vanno ricordati, perché sono le vere vittime accanto a chi non c’è più». Accendere un faro su queste esistenze interrotte è una responsabilità morale e politica. È un compito che la Fondazione ha scelto di assumersi con determinazione, per dare un nome, un volto e una speranza a chi spesso rimane nell’ombra.

È a loro che si pensa mentre si costruiscono nuovi progetti, nuovi percorsi. Mentre si tenta, con determinazione, di non lasciare nessuno indietro. Le donne e i bambini devono tornare al centro. Devono essere ascoltati, protetti, accompagnati. E non solo nei momenti di emergenza, ma nella quotidianità di un reinserimento difficile, fatto di piccoli passi, di gesti fragili, di sogni da ricostruire.

Chi lavora con loro ogni giorno sa quanto lunga e profonda sia la strada da percorrere. Valeria Iannò, pedagogista della casa di accoglienza, racconta di donne strappate ai loro ruoli, alla loro identità. «Accogliamo chi ha vissuto la violenza più crudele. Cerchiamo di ricostruire un progetto di vita per loro e per i loro figli. Le seguiamo in percorsi psicologici, pedagogici, e anche in laboratori per rafforzare le competenze genitoriali, perché la violenza spesso spezza anche il legame con l’essere madre». Restituire quella capacità di amare e di educare, spesso compromessa dal trauma, è uno degli atti più rivoluzionari e profondi. A farle eco Rossana Romeo, operatrice del centro Castellini, che ribadisce come «Fare rete è l’unico modo per salvare queste donne. Abbiamo bisogno delle istituzioni, del volontariato, della società civile. Tutti devono sapere che esistono luoghi dove si può rinascere». Giornate come questa domenica sono la dimostrazione «che anche un piccolo gesto può cambiare una vita. Che la spensieratezza è un diritto, non un lusso».

A fare da colonna sonora a questa rinascita ci sono stati Mimì De Leo e Gino Mattiani, sassofonista e fisarmonicista sotto insegna Publidema che con Demetrio Mannino ha offerto la performance musicale. «Pensavo di regalare un po’ di emozioni – ha detto De Leo – invece me le hanno regalate loro. Ho imparato molto più di quanto avrei potuto immaginare». Non un concerto. Un incontro. «Oggi – ha aggiunto Mattiani – non c’erano grandi numeri, ma una grande energia. E noi artisti viviamo di questo». Le note, i sorrisi, le mani che battono il tempo, le urla di gioia: tutto ha contribuito a costruire un’atmosfera di armonia, dove la musica non era solo intrattenimento, ma cura, parola, relazione.

In questa geografia di affetto, cura e memoria, un posto speciale ce l’ha Sandra Labate, padrona di casa insieme a Nino Altomonte. Con semplicità e verità, ci spiegano, «Non ci interessa chi ha tutto. Noi amiamo chi ha bisogno, perché sono loro che ti lasciano qualcosa. Avere queste donne qui è stato un onore vero». La Tenuta Altomonte si è trasformata in una casa aperta, in un abbraccio collettivo che ha saputo accogliere con naturalezza e rispetto.

Dietro ogni gesto, una rivoluzione silenziosa. Una giornata normale per chi ha tutto, un dono straordinario per chi è sopravvissuta all’orrore. Un pomeriggio a Palizzi che non ha soltanto regalato un po’ di pace: ha rimesso al centro del mondo donne e bambini che credevano di non appartenervi più. E se è vero che un giorno non basta a cambiare una vita, è altrettanto vero che può cambiarne la direzione. Perché la bellezza può tornare. Perché la libertà è possibile. Perché nessuno merita di essere dimenticato.