Come eri vestita? Da vittima a colpevole: a Reggio la mostra contro gli stereotipi dello stupro – FOTO e VIDEO
Su impulso della Uil Calabria e dell'ufficio della consigliera di Parità della Città Metropolitana, anche in riva allo Stretto l'iniziativa di sensibilizzazione volta a scardinare i pregiudizi che ancora ostacolano la piena presa di coscienza della gravità e dell'offensività della violenza sulle donne. Visitabile ancora oggi pomeriggio dalle 17 alle 20 nella galleria di palazzo San Giorgio e da domani, fino a venerdì 31 gennaio, dalle ore 9 alle 17 nell’androne del Cedir

Un vestito a fiori sotto il ginocchio, dettaglio non da poco perché forse sopra il ginocchio sarebbe stato davvero troppo provocante. Per non parlare dei tubini o degli abiti con gonne più corte. Ma a quanto pare a “provocare” sarebbero sufficienti anche pantaloni, tailleur e persino tute e camici da lavoro. Dunque si auto-demolisce qualunque teoria per la quale si vorrebbe davvero sostenere che i vestiti sul corpo delle donne possano renderne comprensibile l’assalto all’integrità, possano addirittura rendere giustificabile un rapporto sessuale imposto, voluto solo da una parte e senza il consenso della donna che da vittima diventa colpevole di aver causato, con il suo abbigliamento, quel gesto di violenza. Si auto-demolisce nell’esperienza ma quella domanda persiste. E allora occorre controbattere con un altro interrogativo. Si può, davvero, in uno Paese civile, affrontare il dramma dello stupro con la domanda “Com’eri vestita?”.
La domanda che colpevolizza
Pone questo interrogativo, la mostra itinerante nata all’interno di un progetto promosso dall’università dell’Arkansas un decennio fa e che ha già girato molto in Italia. Ispirata al poema “What I was wearing” di Mary Simmerling, l’istallazione racconta storie di violenza sessuale attraverso i vestiti che le donne indossavano quando hanno subito la violenza. «Come eri vestita? Mi hanno fatto questa domanda un sacco di volte. Mi hanno costretto a ricordare un sacco di volte».
Ideata da Jen Brockman, direttrice del centro per la prevenzione e l’educazione sulle aggressioni sessuali presso l’Università del Kansas, e da Mary A. Wyandt-Hiebert, direttrice delle iniziative di programmazione del Centro di educazione contro lo stupro presso l’Università dell’Arkansas, negli Stati Uniti ha iniziato ad essere esposta nel 2014. Alcuni anni dopo, Libere Sinergie ha sviluppato un progetto italiano che è ancora itinerante in tutta Italia.
L’iniziativa di sensibilizzazione volta a scardinare i pregiudizi che ancora ostacolano la piena presa di coscienza della gravità e dell’offensività della violenza sulle donne, adesso approda anche a Reggio su impulso della Uil Calabria e del suo coordinamento Pari opportunità, in collaborazione con Libere Sinergie, Sudest Donne e ministero del Lavoro. L’iniziativa si pregia del patrocinio dell’ufficio della Consigliera di parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria.
I vestiti e le storie, l’apparenza e l’essenza
«Riteniamo essenziale e ancora molto necessario sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne e riteniamo altrettanto necessario farlo in rete. Questa domanda “Com’eri vestita?” – ha sottolineato Anna Comi, responsabile del coordinamento Pari Opportunità della Uil Calabria – è una domanda che viene posta troppo spesso alle donne vittime di stupro e che ha delle implicazioni negative. Essa sottende il fatto che la donna avrebbe potuto evitare lo stupro se fosse stata vestita diversamente. In esposizione abbiamo la riproduzione fedele di abiti indossati dalle donne nel momento in cui hanno subito lo stupro con accanto le loro storie.
Lo zio amorevole, l’anziano bisognoso, il datore di lavoro o l’altrettanto insospettabile collega, l’amico di famiglia premuroso, l’estraneo che chiede informazioni, il marito padrone e molto più grande, un conoscente gentile. Ecco gli orchi che hanno segnato irreversibilmente con la violenza la vita delle 17 donne, qualcuna anche poco più che bambina, alle quali si ispira questa mostra. E dopo la violenza, il silenzio, la vergogna, il dolore, il forte desiderio di morire. Dopo ancora, la domanda che dilata la dramma e la ferita “Come eri vestita?”
Tra le storie anche quella di una giovane sportiva che indossava una tuta quando è stata violentata. Ricoverata in ospedale con una prognosi riservata di 15 giorni, da un giornalista che avrebbe voluto intervistarla si è sentita rivolgere proprio quella domanda. Il papà indignato ha buttato fuori il giornalista ritenendo quella domanda offensiva e un ulteriore oltraggio a sua figlia.
Ecco anche noi riteniamo che tale domanda generi una colpevolizzazione delle donne, nonostante siano state vittime. La nostra iniziativa sta coinvolgendo, oltre che le istituzioni, anche i ragazzi del liceo classico Tommaso Campanella. Tra i giovani che hanno visto la mostra tanti hanno lasciato un messaggio, una riflessione sul quaderno che con i vestiti sta viaggiando in tutta Italia. Tra loro ci ha colpito un ragazzo, Alex. Entrato senza aver capito il senso del titolo della mostra, ha poi scritto che leggendo le storie ha “sentito l’orrore e la paura di quelle scene”, rivolgendo altresì una dura autocritica al suo genere. Un’altra ragazza, Gisella, ha voluto riportare una poesia dedicata a Giulia Cecchettin. Questa è una mostra itinerante ha già girato 250 città italiane. A fine mese – ha spiegato Anna Comi, responsabile del coordinamento Pari Opportunità della Uil Calabria – rimetteremo tutto in valigia affinché la mostra possa partire alla volta di altre città».
La domanda che “accusa”
«L’impulso provenuto dalla Uil Calabria ha incontrato subito il pieno accoglimento dell’ufficio della Consigliera di parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria che rappresento. Una iniziativa che deve coinvolgere anche le aule di tribunale, luogo nel quale questa odiosa domanda ancora troppo spesso viene posta», ha evidenziato la Consigliera di parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria, Paola Carbone.
«Che senso ha questa domanda e soprattutto che senso ha che questa domanda venga posta a alla vittima nel momento in cui la stessa denuncia. Purtroppo ancora oggi nei processi la sentiamo porre. Questi reati normalmente si commettono senza testimoni e quindi tutto si gioca sulla credibilità della vittima e, dunque, la domanda “Come eri vestita?”, assolutamente provocatoria, una domanda accusatoria. Come se l’essere vestite in una certa maniera possa costituire una sorta di consenso implicito della donna. Occorre destrutturare questo stereotipo ancora troppo radicato nel pensare comune. Dobbiamo abbatterlo, scardinarlo. Non possiamo e non dobbiamo trasformare la vittima in una carnefice, una colpevole.
È importante la formazione degli operatori di giustizia. Devo dire che negli ultimi tempi nel nostro tribunale, grazie alla sezione speciale dei magistrati, formati per trattare questi tipi di reato, c’è una maggiore attenzione prestata da tribunale, collegi e a pubblici ministeri. Questo si percepisce ma dobbiamo ancora lavorare molto e a lungo. Da qui – ha sottolineato la Consigliera di parità della Città Metropolitana di Reggio Calabria, Paola Carbone – la forte volontà di allestire la mostra anche nelle aule di giustizia».
Anche nelle aule di giustizia
Dopo la tappa alla galleria di Palazzo San Giorgio, sede del Comune di Reggio Calabria, dove sarà esposta ancora oggi pomeriggio dalle 17 alle 20, da domani e fino a venerdì 31 gennaio dalle ore 9 alle 17, in collaborazione con il comitato Pari opportunità del consiglio dell’ordine reggino degli avvocati, la mostra sarà esposta presso il tribunale nell’androne del Cedir.