Strage Bologna, l’amarezza di Enza Lascala: «Mio padre ricordato ovunque con le altre vittime, ma non a Reggio»
Nel giorno del 44^ anniversario dell'attentato del 2 agosto 1980, la figlia di Francesco Antonio Lascala, centralinista delle ferrovie in pensione di 56 anni: «Qui nessuna lapide in memoria, nessun luogo con il suo nome. E oggi silenzio»
«In Germania, in Francia, non solo in Italia e non solo a Bologna dove ogni 2 agosto i familiari sfilano affiancati dai Gonfaloni dei Comuni di residenza, lasciandosi accarezzare dalla solidarietà della comunità che anno dopo anno non dimentica. Anche oggi, in occasione del 44° anniversario della strage che ha spezzato 85 famiglie, Bologna si prepara a questo abbraccio. Invece Reggio Calabria ignora che una delle vittime di quella strage fosse nato a Bianco e fosse cresciuto e vissuto nel rione Ferrovieri nella zona sud.
La vittima reggina era mio padre, Francesco Antonio Lascala che quest’anno avrebbe compiuto 100 anni. La mia salute non mi consente di recarmi a Bologna, dunque, avrei avuto bisogno di un luogo qui a Reggio dove accarezzare il nome di mio padre. L’associazione culturale L’Agorà, in persona del presidente Giovanni Aiello, nel solco delle parole del presidente della Repubblica di allora Sandro Pertini all’indomani della strage, ha presentato una proposta di intitolazione di una strada a mio padre al Comune di Reggio. Non abbiamo mai avuto un riscontro». Anno dopo anno crescono l’amarezza e il dispiacere di Enza Lascala, che nel 1980 aveva 27 anni e viveva a Cremona dove il padre avrebbe dovuto raggiungerla, senza però mai arrivare. Il treno era arrivato in ritardo e la coincidenza richiedeva un’attesa che fu fatale, in quella stazione saltata in aria alle 10 e 25 di quella mattina infernale di un sabato di mezza estate, che sul calendario segnava la data del 2 agosto.
L’orologio fermo… alle 10:25
Una violenta esplosione, quarantaquattro anni fa, uccide 85 persone, ferendone duecento. Crolla l’ala ovest dell’edificio che, davanti al binario 1 della stazione Centrale di Bologna, ospita la sala di aspetto di seconda classe, la tavola calda e altri uffici. Quella sala d’aspetto oggi accoglie un monumento con tutti i nomi delle vittime e fuori un orologio è ancora fermo a quell’orario.
Testimonianze successive all’impatto riferiscono di un fortissimo boato, di una violentissima deflagrazione e del reperimento del cratere da parte dei vigili del fuoco. Così in modo inequivocabile e allarmante, la più rassicurante per quanto drammatica ipotesi dell’esplosione di una caldaia e quindi di un incidente, cede il passo alla certezza di attentato dinamitardo. Il terrorismo in Italia non è ancora finito e a Bologna si consuma un attentato di matrice neofascista, il più grave avvenuto nel Paese nel Secondo dopoguerra, uno degli ultimi atti della strategia della tensione.
Il 2 agosto 1980 la nostra Repubblica trema e va in pezzi. La nostra Democrazia fallisce, lasciando che sia versato il sangue innocente di 85 persone, anche bambini, in un progetto di morte deliberato; la nostra Democrazia continua a fallire ogni giorno che passa senza che sia riconosciuto ai familiari giustizia e verità. Tutta la verità.
Cinque esecutori materiali e mandanti deceduti
Il primo processo richiede, infatti, sette anni per essere istruito. Le sentenze di condanna definitiva arrivano dopo altri otto anni, destituendo di fondamento le altre ipotesi terroristiche estere (palestinese, spagnola, franco-tedesca, libanese e libica) e quella del diversivo dalla strage di Ustica, consolidano la matrice neofascista della strage e condannano solo gli esecutori materiali, Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, giovane coppia militante nel gruppo eversivo Nuclei Armati Rivoluzionari (Nar) d’ispirazione neofascista, già in carcere.
E poi successivamente Luigi Ciavardini, all’epoca minorenne e giudicato da altro tribunale, anche lui esponente dei Nar. Nel gennaio 2020, i giudici della corte di Assise di Bologna condannano all’ergastolo in primo grado per concorso in strage anche l’ex esponente Nar, Gilberto Cavallini. Nella condanna di Cavallini si legge che il reato viene riqualificato da Strage comune a Strage politica. Nel 2022, confermato lo scorso luglio, condannato all’ergastolo come esecutore anche l’ex terrorista di Avanguardia Nazionale Paolo Bellini.
Nel 2020 la Procura generale della Repubblica di Bologna emise l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sui mandanti della strage di Bologna nei confronti di Licio Gelli, del suo braccio destro Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato, ex direttore dell’ufficio Affari riservati del Ministero dell’Interno, Mario Tedeschi, storico direttore del periodico culturale di destra Il Borghese. Tale avviso non raggiunge nessuno di loro. Tutti morti e non più perseguibili.
Francesco Antonio Lascala
«Francesco Antonio Lascala, di 56 anni, era sposato e aveva tre figli; viveva a Reggio Calabria con la moglie Elvira e uno dei suoi figli. Era stato centralinista alle Ferrovie dello Stato ed era in pensione. Alle 10:25 del 2 agosto 1980 si trovava sul primo binario della stazione di Bologna, in attesa del treno che lo avrebbe portato a Fidenza e poi a Cremona, per trascorrere alcuni giorni dalla figlia Vincenza.
Il treno con il quale era partito era arrivato a Bologna con tre ore di ritardo e per questo motivo Francesco Antonio aveva perso la coincidenza e doveva aspettare il treno delle 11:05. Era appassionato di pesca, perciò aveva portato con sé canne e mulinelli per dedicarsi, in compagnia del genero, al suo passatempo preferito. Lo scoppio della bomba lo uccise». Ecco la storia della vittima reggina custodita nella rete degli Archivi dei Beni Culturali Per non dimenticare. Le vittime calabresi furono due, con Francesco Antonio Lascala, la rossanese Maria Idria Avati in Gurgo.
Il nome di Francesco Antonio Lascala è riportato nel memoriale alla stazione di Bologna e sulle decine di lapidi che sono sparse in Italia e oltre, dove le città hanno perso dei loro cittadini. Un sanpietrino reca il suo nome nel percorso che da piazza Nettuno conduce alle Stazione Centrale. Nessuno ha ancora intrapreso e portato a termine il suo viaggio, nell’ambito dell’iniziativa 85 viaggi A destino, con la simbolica valigia bianca, testimone di una memoria che continua, e che sarà consegnata una volta arrivati, a un passante, raccontando del progetto e la storia della vittima di cui ha portato a compimento il viaggio. Francesco Antonio Lascala è onorato e ricordato con le altre vittime ma non nella sua città di origine che continua e non avere memoria.
«Chi ricorderà qui dopo di noi?»
«Il dolore di noi familiari – prosegue ancora la figlia Vincenza – non si esaurisce e ogni anno in prossimità di questa giornata viviamo con il timore che quella ferita, che mai si rimarginerà, possa farci ripiombare in quella disperazione. Viviamo con la paura che quel dolore immenso possa rinnovarsi. Non esiste consolazione per una morte così violenta e ingiusta di una persona cara.
Eppure guardo la mia nipotina Serena Vincenza, la mia gioia, e so che la vita va avanti ma al contempo realizzo che con noi scomparirà, anche per lei e per gli altri nipotini, il ricordo di mio padre e del loro bisnonno, Francesco Antonio. Gli amici di mio padre sono tutti morti e anche noi ce ne stiamo andando. Quando noi figli non ci saremo più, il silenzio e l’indifferenza di questa città, in nessun luogo, che sia una strada, un piazza porterà il nome del mio padre, saranno amplificati e ancora più colpevoli.
Il silenzio di questa città è ormai assordante. Non credo riuscirò mai a capire perchè le altre città anche estere, dato che quella mattina in quella stazione non c’erano solo italiani, conoscano il nome di mio padre e lo onorino mentre la città dove era cresciuto e vissuto non lo faccia. Perchè lo ignori. Neppure in questo giorno di dolore assoluto, le autorità compiono un minimo passo verso di noi. Per Reggio mio padre, vittima di una strage di matrice neofascista tragicamente ascritta nella storia del nostro Paese, non è mai esistito».
Né una lapide a Reggio né il gonfalone a Bologna
«Ricordo il sindaco Oreste Granillo, primo cittadino di Reggio al momento della strage, ebbe la sensibilità di accoglierci al ritorno da Bologna. Noi almeno eravamo riusciti ad avere un corpo, anche se dilaniato. Ma ricordo lo strazio di altri familiari ai quali questo non fu concesso. Ricordo che mia madre Elvira ebbe più volte degli incontri pure con Italo Falcomatà per realizzare anche a Reggio un presidio di memoria e anche per sollecitare la presenza del gonfalone del comune reggino insieme agli altri a Bologna, al corteo dove per tanti anni con me e con i miei fratelli Domenico e Giuseppe andava.
Nel 2007 – prosegue Vincenza Lascala – è morta senza riuscire a vedere a Reggio questa lapide né il gonfalone reggino tra gli altri a Bologna. La salute non mi assiste più. L’ultimo anno in cui mi recai a Bologna fu il 2017, quando la regione Emilia Romagna diede vita ai percorsi della memoria e la storia di mio padre fu raccontata da Silvana Conversano, purtroppo scomparsa qualche anno fa, nell’ambito del progetto “Cantiere 2 agosto”.
Ricordo che prima di partire avevo chiesto che se il gonfalone dell’Amministrazione comunale potesse essere presente, almeno quell’anno che forse sentivo che sarebbe stato per me l’ultimo. Mi venne risposto che nessun agente della polizia municipale sarebbe potuto venire a Bologna e che non avrebbero potuto affidarlo a me. Quindi nulla. Reggio non ricordava qui in Calabria e non lo avrebbe fatto neppure a Bologna».
Il dovere (disatteso) della memoria
«L’amarezza si amplifica guardando avanti ai nipotini e anche all’indietro anche nel ricordo di mia madre Elvira che a lungo ha cercato di sensibilizzare l’amministrazione comunale di Reggio affinché anche Reggio avesse come tutte le altre città ferite da questa strage un luogo dedicato alle vittime della strage. Abbiamo sempre ritenuto che fosse un dovere per Reggio ricordare mio padre e tutte le altre vittime come fanno a Bologna e in tutte le città di origine delle altre 84 vittime. Questa rimane una nostra convinzione – conclude Vincenza Lascala – nonostante il senso di abbandono e solitudine che avanza con la nostra età e con la consapevolezza di avere sempre meno tempo per cambiare questo stato di cose».
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