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Mandorli in fiore un tempo copiosi popolavano i suoi argini. L’antica fiumara dell’Amendolea (Amiddalia – Amigdala in greco di Calabria mandorleto), nel comune di Condofuri, nel reggino, fluisce tra le montagne dell’Aspromonte. La fiumara Alex per il geografo Strabone e lo storico Tucidide e Kaikinos, con il suo ultimo tratto navigabile, per Plinio il Vecchio.
Lo scroscio leggero e armonioso delle acque custodite in quel flusso trasparente che scorre delicatamente sopra le pietre a mormorare, a sussurrare instancabile la sua storia millenaria. Una storia che culmina nel mistero se fosse qui o a Palizzi il confine tra le due gloriose colonie Magno greche di Rhegion e Lokroi Epizephirioi.
Dall’Aspromonte fino al mar Ionio
Un fulgido e sinuoso filamento d’argento abbracciato dal sole e un cratere lunare di notte. La fiumara dell’Amendolea approda al mare scendendo da Gallicianò, Roccaforte del Greco, Roghudi e Condofuri, mentre Bova resta a dominare la valle Grecanica. Attraversa gole e dirupi e traccia curve e pendii. Nel suo incedere a valle, fluttua nelle cascate di Maesano e nel lago Olinda in prossimità della contrada Santa Triada di Roccaforte del Greco, fino alla sua massima espansione in larghezza (pari a 500 metri). Qui incontra il torrente Colella. Nel suo incedere a valle, accoglie le acque del Menta, suo principale affluente, e una volta giunto, segna nella montagna la Rocca del Lupo.
A dominare la vallata, il suo borgo di cui vi è traccia documentata dal 1099. L’antico paese di Amendolea fu devastato dal terremoto del 1908 e abbandonato dopo l’alluvione del 1956.
Il borgo tra le preziose rovine
Si raggiunge a piedi dopo una salita ripida e addolcita da una flora variegata e pregna di memorie e dalla storia delle ere geologiche impresse sulle rocce. Il borgo si presenta con un piazzale dal quale è possibile guardare ai ruderi dell’abside della Chiesa di Santa Caterina, al campanile della chiesa di San Sebastiano, ai resti delle abitazioni private e a quelli della chiesa dell’Annunziata, orientata ad est secondo la tradizione religiosa orientale.
Domina la vallata anche il castello di epoca normanna che attraversò secoli e casate fino a giungere ai Ruffo di Bagnara che la abitarono per ultimi quasi fino al 1800. Di esso restano rovine parlanti, come le avrebbe definite il giornalista e scrittore viaggiatore triestino Paolo Rumiz, qualora si fosse recato nel reggino anche lì oltre che ad Africo e Ferruzzano nei suoi viaggi tra le Dimore nel Vento.
Rovine che incorniciano il cielo e conducono ai resti di una cappella costruita in età normanna che nel suo secondo livello rivela la presenza di una chiesetta a pianta absidale, bizantina e pertanto orientata a sud. Sui muri nessuna traccia degli affreschi che pure ci saranno stati ad adonarla e lì anche i resti di una piccola cisterna, anch’essa molto antica.
Tutto questo è sopravvissuto ai secoli e ai sismi del 1783 e del 1908. E quelle pietre gravide di storia sono tutt’altro che morte e silenti. Ancora parlano.

