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Bella. Fiera. Sorridente. Il suo volto risplende come sua la storia di rinascita e di affermazione di sé, iniziata con i primi interrogativi in adolescenza e scandita da paure e sofferenze ma anche dal coraggio per affrontarle. Una storia che continua, che ancora presenta sfide ma che adesso viaggia spedita verso la felicità.
In occasione dell’odierna Giornata Mondiale dei Sogni, Simaria Chirico, la splendida giovane donna di quasi vent’anni, ospite negli studi del Reggino.it del format A tu per tu, ci racconta del sogno che ha realizzato qualche mese fa, quando a casa è arrivato il “nuovo” documento di identità. Finalmente Simaria ha potuto leggere il nome femminile che, diversamente da quello maschile attribuitole alla nascita, la rappresenta nel profondo. Un riconoscimento sociale essenziale per chi percepisce una psicosessualità diversa da quella biologia e intraprende un percorso di riaffermazione di genere.
L’identità anche sulla “carta”
«Tenere tra le mani la mia nuova carta d’identità è stato il momento più emozionante. Vedere quel nome e la “F” di femmina anche nero su bianco. Oltre che essere tutto vero, finalmente era anche tutto chiaro dopo quel cammino difficile e complicato di accettazione della mia transessualità. Auguro a tutte le persone che condividono questo percorso di poter provare l’emozione che ho provato io in quel momento. Non è impossibile e ci sono riuscita in pochissimi mesi. Unitamente alla mia famiglia che mi ha sempre sostenuto, devo ringraziare davvero tante persone ed essere grata alle istituzioni e alla magistratura per avere reso possibile che la variazione anagrafica intervenisse prima che io mi diplomassi lo scorso giugno».
Tra i tanti angeli che Simaria ha incontrato durante il suo cammino e che l’hanno aiutato a realizzare questo sogno anche l’avvocata Silvia Martino dello sportello legale del Centro antidiscriminazioni di Arcigay Reggio Calabria che l’ha seguita nell’iter. Un cammino che non è stato solo professionale ma anche profondamente umano. E lo stesso racconta Simaria della psicologa Noemi Lo Scalzo e del giudice Giuseppe Campagna, presidente del collegio composto anche da Francesco Campagna e Flavio Tovani.
Il desiderio esaudito
«Ricordo l’abbraccio con Silvia e ricordo l’udienza durante la quale il giudice Francesco Campagna, dopo avermi detto che non avrebbe dovuto essere lui a darmi il permesso di essere quello che ero già, ossia una giovane bellissima donna, mi chiese quale fosse il mio sogno. Gli risposi che avrei voluto diplomarmi al liceo di Scienze Umane Tommaso Gullì che stavo frequentando con il “mio” nome. Lui rispose che avrei realizzato quel sogno e così è stato. Adesso sono solo ansiosa di andare incontro al mio futuro che so non essere semplice. Ma sono pronta a essere tanto, tanto felice».
Porta con sè le sue grandi grinta, energia e positività, Simaria. Sono palpabili mentre racconta. Pur avendo attraversato numerosi momenti difficili, sa di non venire dal buio e dal silenzio opprimenti ai quali sono costretti tanti suoi coetanei che non hanno la stessa fortuna di avere una famiglia a sostenerli. Raccontiamo questa storia, grazie a Simaria, anche per loro, affinché sappiano che, nonostante gli ostacoli, è possibile non essere soli e trovare ascolto e sostegno. È possibile aiutare anche le loro famiglie ad “accettare” la loro transessualità.
La scelta di mamma Grazia
«Mia mamma Grazia adesso fa parte di Agedo, l’associazione che riunisce genitori, parenti e amici di persone Lgbtqia+. Un passo importante per lei. Un’emozione bellissima per me. Sapere che impegna anche per ascoltare altri genitori, per aiutarli e affiancarli mi riempie di gioia e di orgoglio. Personalmente non vorrei vivere una vita senza mia madre che è stata la persona più importante nel mio percorso e senza la quale non so immaginare il mio futuro.
So di essere stata tanto fortunata quando, accanto a me, nei momenti di sconforto, in cui non avevo voglia di uscire e stare in mezzo agli altri, avevo lei che sapeva e capiva ben prima di me. Mi sento di dire ai tanti genitori che noi, figlie e figli, siamo sempre noi, le loro figlie e i loro figli, con le nostre fragilità, la nostra pubertà, la nostra adolescenza, alla nostra età, i nostri innumerevoli interrogativi».
«Non siamo malati. La transessualità è parte della nostra vita ma noi siamo tanto altro come ogni persona»
«Non è la transessualità a definirci, siamo e restiamo adolescenti e poi giovani adulti, persone nella società e figlie e figli nelle famiglie con sogni, speranze, paure e il desiderio universale di felicità.
Com’è possibile “abbandonare” o “giudicare” i figli ritenendoli malati e disturbati? Non siamo malati. Perché mi dovrebbe rendere inferiore o malata il fatto di ritrovarmi in un corpo che non è quello che desidero? Guardatemi – incalza Simaria – e ditemi se io vi sembro malata. Noi vogliamo solo esistere e, come tutti, essere felici. Non togliamo nulla a nessuno.
La disforia di genere non è un disturbo, non è una malattia ma una condizione – spiega Simaria – in cui ci troviamo quando la nostra anima non è conforme al nostro corpo, non è rappresentata dal proprio corpo. Quando lo specchio riflette qualcuno in cui non ci riconosciamo. Questo genera sofferenza. Non nascondo che avrei voluto una vita più semplice e oggi capisco che i genitori possano essere spaventati, ma resto fiera del mio percorso di transizione. Esso è parte della mia esistenza ma non è tutta la mia vita.
Ci sono e ci saranno i momenti no – ammette Simaria – ma quelli ci sono nella vita di tutti. Ciò non deve spaventare. Mi auguro, e auguro, di smettere di pensare che magari le sofferenze siano dovute solo alla transessualità, perché spesso anche io ho fatto questo errore di credere di soffrire per il solo fatto di essere transessuale e non innanzitutto un’adolescente. Ma io, noi non siamo un aggettivo. Io sono Simaria Chirico, una donna e, dunque, sono molto altro. Molto di più.
Vorrei davvero consigliare alle ragazze e ai ragazzi di smetterla di vedere solo la transessualità. Si tratta della nostra vita. Basta con tutto il resto. Siamo noi ma se per primi noi non saremo consapevoli di questo, difficilmente porteranno esserlo gli altri, compresi i nostri familiari».
Finalmente il corpo dell’anima
«Ho intrapreso un percorso di riaffermazione di me stessa che non finirà e durante il quale avrò altri momenti difficili anche perché la terapia ormonale è impegnativa e impattante sul fisico come sulla psiche. Il percorso psicologico mi ha preparato al trattamento medicalizzato che ho iniziato due anno fa a Roma, perché a Reggio non ci sono ancora endocrinologi formati per questi percorsi. Il trattamento – racconta ancora Simaria – mi sta rendendo la donna che mi sento di essere. Il mio corpo cambia tanto.
Vedere crescere il seno, ritrovarmi e riconoscermi nelle mie curve più femminili, mi rende veramente me stessa, mi rende finalmente felice. Ma non è tutto rose e fiori. Il cammino riserva anche passi difficili da compiere Ho la fortuna di sapere che non solo sola e questo mi aiuta, come del resto aiuta tutti la consapevolezza di essere sostenuti».
Tra identità e verità
«La consapevolezza di sentirmi una donna, pur essendo uomo all’anagrafe, è arrivata gradualmente, passando anche per l’idea di essere attratta solo dagli uomini. Io, però, sentivo che la questione era diversa e più profonda, non atteneva solo all’orientamento sessuale ma a come io percepivo e vedevo me stessa e a come gli altri percepivano e vedevano me stessa. Non ero a mio agio con l’idea che in me vedessero un “lui”. Era un’identità che non mi apparteneva.
Non c’è stato un momento esatto in cui mi sono accorta di sentirmi donna. È una consapevolezza che io credo di aver sempre avuto senza però avere gli strumenti per codificarla. Sentivo disagio con gli altri e con me stessa. Nel mio caso – racconta ancora Simaria – il passaggio critico nel percorso di accettazione dell’essere trans non è stato dirlo agli altri, perché in questo sono stata fortunatissima non essendo stato necessario alcun coming out, ma riconoscerlo a me stessa prima e, dopo avere acquisito consapevolezza, e dirlo al mio papà che ha solo avuto bisogno di più tempo».
«Mamma, lo specchio della mia anima»

«Con il mio fratello gemello Giuseppe e mia sorella Elèna, alla quale prendevo tutti i vestiti, non c’è stato mai bisogno di parlarne. Loro già sapevano, anche prima di me. Anche mia madre aveva capito. Non dimenticherò mai quella sera in bagno in cui, come spesso accadeva, ci stavamo struccando insieme. Lei a un certo punto chiese: “Tu ti senti donna?”. Lei conosceva già la risposta. Aveva aperto lei quella che era la mia strada. Credo che il coming out sia il passo più difficile a prescindere, anche se io non ho avuto bisogno di farlo. Ho avuto e ho ancora lo straordinario supporto della mia famiglia. Anche al liceo, con gli amici è stato sempre tutto molto naturale. Ero per tutti già Sima».
«Papà mi ha insegnato la pazienza»
Oggi sorride ed è libera e felice. Al liceo di Scienze Umane Tommaso Gullì, dove è stata anche la prima rappresentate di istituto transessuale, grazie ai compagni, ai professori tutti, al dirigente scolastico Francesco Praticò, non è stato necessario alcun coming out. Gli anni più duri, per l’assenza di accettazione sociale, sono stati i precedenti in cui Simaria ha subito anche bullismo. Prima di avere il completo e totale sostegno della sua famiglia ha anche dovuto attraversare la distanza creatasi tra lei e papà Andrea.
«Ha avuto bisogno solo di più tempo – racconta con dolcezza Simaria – ma anche mio papà è stato ed è meraviglioso. È stato lui ad accompagnarmi a fare la mia prima visita. Grazie a lui ho imparato a riflettere su un aspetto sul quale, presa dall’urgenza di essere e di essere vista per come io mi sentivo, non mi ero soffermata. Pretendevo che i tempi dovessero essere quelli che dettavo io. In realtà io ormai avevo chiaro tutto, finalmente, e avevo urgenza di affermare la mia identità. Il mio, certamente, non era un capriccio ma un bisogno di esistere. Ecco perché anche a casa non ho lasciato neanche il tempo che adeguassero il pronome alla mia identità. Li correggevo continuamente. Ma non è stato giusto avere queste pretese».
Il tempo che porta alla condivisione che conduce alla felicità
«Tendiamo ad essere egoisti e a tralasciare quando l’impatto di questa consapevolezza possa spaventare i nostri genitori, la nostra famiglia per tutto quello che dovremo affrontare. C’è paura e occorre dare tempo e non pretendere, come per esempio ho fatto io. Io ho commesso l’errore
di pretendere che loro reagissero e accettassero subito. Mi sento di consigliare di non fare come me. Di dare tempo e di saper attendere.
È importante dare alle persone che ci circondano il tempo di capirci e di capire cosa ci sta succedendo come è importante prendere anche per noi il tempo che serve, sapendo che è possibile anche se ci sembra di essere alle pendici di una montagna insormontabile e che il percorso di transizione sia una scalata ardua. Ma quel percorso di riaffermazione di genere è in realtà il percorso della nostra affermazione. Per questo è necessaria ed è l’unica – conclude Simaria – che ci porterà alla felicità».
Quella Felicità che ci renderà una comunità, una società sempre più Libera e Giusta.