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Si era congedato con un gesto teatrale: i “bacioni” lanciati verso le transenne, rivolti a un gruppo di manifestanti che ormai trova difficile diventare massa. Un saluto beffardo, quasi affettuoso, ma carico di quel potere che non sente più il bisogno di rispondere. Oggi Matteo Salvini torna a Santa Trada, sullo stesso terreno – seppure a qualche chilometro di distanza – ma con un’altra postura: quella del vincitore. Il Ponte si farà, piaccia o meno, e lui torna sul luogo del “delitto” per celebrare ciò che chiama svolta storica.
Il cerchio si chiude dove tutto era rimasto sospeso: davanti al vecchio pilone, che ora diventa simbolo del futuro. Niente più voci a disturbare, niente più proteste. Il dissenso si è sfibrato, la piazza si è svuotata. E Salvini può risalire la Calabria tra applausi istituzionali e microfoni accesi, mentre intorno resta solo il silenzio di chi non ha più la forza di farsi ascoltare.
Santa Trada è il palcoscenico perfetto. Qui sorgeranno i primi cantieri, qui si darà avvio a quella che il ministro definisce «un’opera epocale». Il progetto definitivo del Ponte sullo Stretto ha ottenuto il via libera del Cipess: 13,5 miliardi di euro, avvio dei lavori entro settembre/ottobre 2025, conclusione prevista per il 2032. Salvini parla di oltre centomila posti di lavoro, alta velocità fino a Reggio Calabria, tre miliardi già destinati alla Statale 106.
E ancora: legalità garantita, massima trasparenza, nessuna infiltrazione. Una narrazione lineare, rassicurante, pensata per consolidare il consenso e segnare il passo della campagna elettorale regionale che verrà. Ma dietro quella sicurezza esibita, non c’è spazio per chi solleva dubbi, né per chi dovrà convivere con piloni, espropri e disagi per anni. È il modello del potere che parla da solo. E che festeggia senza invitare nessuno al tavolo.
Eppure basterebbe tornare indietro di poche settimane per capire da dove nasce questo presente. Era fine maggio quando Matteo Salvini, all’uscita dalla Prefettura di Reggio Calabria, voltandosi verso un piccolo presidio di manifestanti, si congedava con un sorriso largo e due bacioni. Un gesto che sembrava leggero, quasi folcloristico, ma che conteneva tutto: l’idea di un potere che non teme più la piazza, che la guarda con distanza e ironia, e che anzi si diverte a teatralizzare il dissenso.
Non c’era folla quel giorno, non c’era rabbia. Solo volti noti, voci stanche, striscioni ripiegati su se stessi. Una scena spiazzante: il potere che irride, la protesta che non incide. Lì si è consumata una svolta silenziosa. Non è stata la piazza a cambiare l’agenda del governo. È stato il governo a trasformare la piazza in un’appendice decorativa. Da contenere, tollerare, e infine ignorare.
L’ok del Cipess ha solo certificato ciò che già si intuiva: il Ponte è ormai un fatto compiuto nella narrazione politica del centrodestra. È l’opera-simbolo, la bandiera propagandistica da issare su Calabria e Sicilia. A poco servono le richieste di confronto, i dubbi ambientali, le denunce degli espropriati.
Tutto si schiaccia su uno storytelling di efficienza e orgoglio nazionale: l’Italia che rialza la testa, che unisce il Sud al Nord, che corre. E in questo racconto, non c’è spazio per l’incertezza. Eppure, tra i residenti di Villa San Giovanni e delle aree coinvolte dal tracciato, le paure restano tutte.
Non solo quelle legate alla perdita della propria casa, ma anche al rischio di trovarsi accanto a un cantiere eterno, a un’opera che parte ma non si conclude, a promesse di compensazioni che non si trasformano mai in realtà. La fiducia è poca. E il silenzio, oggi, suona più come rassegnazione che come consenso.
Le voci contrarie ci sono ancora, ma si sentono sempre meno. I comitati che da anni si battono contro il progetto, come “TiTengostretto”, continuano a denunciare quello che definiscono un «pericolo ambientale incalcolabile», ma nessuno li ascolta più.
Gli espropriati parlano da soli: raccontano di lettere ricevute senza preavviso, di terreni da lasciare, di case che rischiano di essere abbattute. E non è solo una questione di indennizzi. È una questione di identità, di storia familiare, di comunità che rischiano di scomparire sotto il cemento. I timori non riguardano più solo l’opera in sé, ma il modo con cui viene imposta, senza un percorso partecipato, senza interlocuzioni reali. Una frattura democratica che alimenta sfiducia e abbandono. E in tutto questo, il governo continua a parlare da solo, senza mai voltarsi davvero.
E mentre sullo Stretto si inaugura la narrazione del “futuro che arriva”, in Calabria si prepara una campagna elettorale dove il Ponte sarà il vessillo perfetto del centrodestra. Un tema polarizzante, da usare per rivendicare concretezza e visione. Salvini lo sa bene: torna a Santa Trada non solo per celebrare l’opera, ma anche per capitalizzare consenso.
Il messaggio è questo, ed è pienamente politico, per non dire elettorale: noi facciamo, gli altri parlano. Ma l’opposizione calabrese, almeno finora, non sembra in grado di contrastare quella narrazione. Il centrosinistra è diviso, le critiche restano isolate, le voci istituzionali sembrano arrancare. E così, anche il dissenso politico viene lasciato fuori dalla scena, come la protesta di piazza.
Si parla di milioni, di viadotti, di piloni. Ma non si parla più delle persone, né di cosa significhi davvero vivere dentro – e sotto – un’opera che attraversa territori già fragili. Il rischio è che tutto si giochi su una grande illusione.
E intanto, mentre i proclami si moltiplicano, la Calabria resta in ascolto. O forse no. Perché quella che una volta era terra di comitati agguerriti e assemblee partecipate, oggi sembra osservare in silenzio. Non ci sono cortei, non ci sono studenti in piazza, non si vedono striscioni alle finestre. I giovani mancano, e con loro anche la speranza di un ricambio. Le battaglie di un tempo si ripetono con le stesse parole, ma senza più la forza collettiva di farle risuonare.
Così, oggi Salvini tornerà sul luogo che ha scelto come palcoscenico. Santa Trada sarà la foto di copertina di un potere che celebra se stesso, incurante delle crepe che si aprono sotto i piedi. L’opera si farà. Lo dice il Cipess, lo ripete il governo, lo urlano i manifesti. Ma quella che manca è la voce dei territori. Nessuno ha mai chiesto loro davvero cosa pensano. Nessuno li ha inclusi in un processo decisionale trasparente. Il Ponte unisce, dicono. Ma a guardarlo da qui, sembra solo tagliare. Tagliare col passato, col presente, con le persone.