martedì,Marzo 25 2025

A TU PER TU | Antonio Salvati rievoca la storia dei 400 ebrei a bordo del Pentcho: non raggiunsero la Palestina ma trovarono salvezza in Calabria – VIDEO

Il magistrato e scrittore, originario di Napoli ma ormai in Calabria da oltre 20 anni, racconta una vicenda realmente accaduta e poco conosciuta. Una vicenda in cui al mancato approdo nella terra promessa corrispose la nuova destinazione: il campo di Ferramonti di Tarsia

A TU PER TU | Antonio Salvati rievoca la storia dei 400 ebrei a bordo del Pentcho: non raggiunsero la Palestina ma trovarono salvezza in Calabria – VIDEO

«Sarò sempre grato all’amico e studioso Enrico Tromba, esperto di storia ebraica, che mi ha consentito di conoscere la vicenda del Pentcho e di 400 ebrei in fuga verso la Palestina durante la persecuzione nazista. Una storia che ho fatto mia e che ho sentito l’urgenza di raccontare in forma romanzata perché meritava di essere conosciuta».

Antonio Salvati, magistrato campano in Calabria da oltre 20 anni, appassionato di lettura e ideatore del festival Diritto e Letteratura Città di Palmi che quest’anno giunge alla XII edizione, è autore di Pentcho, un romanzo (quello di esordio) che rievoca la storia degli ebrei in fuga dall’allora Cecoslovacchia verso la Palestina a bordo dello sgangherato e precario battello. Ospite del format del Reggino.it A tu per tu, il giudice scrittore racconta questo pezzo di storia che a un certo punto, del tutto inaspettatamente, diventa anche calabrese. GUARDA IL VIDEO

La fuga, il naufragio e … una salvezza inaspettata

«Una storia che, come tante, era rimasta ai margini e che invece avrebbe dovuto essere conosciuta. Pentcho era un battello destinato al trasporto di animali lungo il Danubio, dunque in acque fluviali, che invece si ritrovò a trasportare persone in mare aperto. Le persone erano 400 ebrei in fuga da Bratislava minacciata dall’invasione nazista, talmente disperati da pensare di arrivare in Palestina, all’epoca protettorato britannico. Quasi giunti a destinazione avvenne il naufragio che dirottò le persone verso la Calabria. Soccorsi, infatti, dalla nave italiana guidata dal capitano Carlo Orlandi, in quanto ebrei negli anni delle leggi razziali, furono portati a Ferramonti di Tarsia dove sorgeva un campo di internamento in cui i trattamenti furono più umani grazie alle singole persone che vi operarono. Restava pur sempre un campo di internamento.

Qui uomini, donne e bambini erano reclusi per ragioni legate alla fede, alle opinioni politiche, all’orientamento sessuale. E qui, in quanto ebrei stranieri, coloro che avevano viaggiato a bordo del Pentcho furono separati dagli altri, dunque furono rinchiusi tra i rinchiusi. Nonostante fossero ebrei, tuttavia, in quel frangente storico, proprio perchè portati a Ferramonti, riuscirono a salvarsi».

A Ferramonti, internamento ma non sterminio

La storia della persecuzione nazista degli ebrei ha avuto, dunque, anche epiloghi inaspettatamente diversi dallo sterminio. Uno di questi è stato scritto proprio in Calabria nel campo di Ferramonti di Tarsia, nel cosentino.  Questa storia si intreccia con il naufragio del Pentcho ed è stata ricostruita nel romanzo di Antonio Salvati.

«Grazie a Enrico Tromba, alle sue ricerche, ho potuto conoscere i nomi e le professioni delle persone che viaggiavano sul Pentcho e sono questi nomi a dare il titolo ai capitoli. Grazie all’umanità dei trattamenti dentro il campo di Ferramonti riuscirono a potersi lavare e a mangiare regolarmente e, attraverso i piccoli commerci con gli abitanti della zona, andarono avanti fino alla liberazione del campo. In più di un’occasione, il comandante Gaetano Marrari attuò degli stratagemmi per salvare gli internati dalla deportazione nei lager nazisti».

L’esercizio operoso della memoria

Ma la memoria va praticata, non solo declamata e la storia di questo viaggio e di questo naufragio, anche oltre la giornata della Memoria delle vittime della Shoah, deve essere monito per una riflessione di stretta e profonda attualità. «Subito il vento riavvolse intorno all’asta il drappo con cui imploravamo aiuto. L’Europa ci rideva in faccia», scrive Antonio Salvati.

«L’urgenza di raccontare questa storia è legato alla sua universalità. Noi oggi stiamo guardando fenomeno dei migranti senza fermarci un attimo a riflettere sul perché, sul come e, quindi, senza accettare l’idea che innanzitutto i naufraghi vadano salvati e portati al sicuro. Ciò evidenzia che non esercitiamo concretamente la memoria che celebriamo. Ciò vuol dire che l’attività è sterile e inutile. Ciò è molto rischioso. Questo libro è del 2021, eppure ancora vengo invitato per parlarne anche nelle scuole. Occorre però quello scatto che renda concreta l’essenza della memoria nella quotidianità degli eventi e dei comportamenti. Soprattutto per le future generazioni che necessitano di esempi».

Leggi, discriminazioni e giustizia ingiusta

La scoperta di questa storia e la trasposizione nella scrittura hanno rappresentato un’esperienza significativa per Antonio Salvati, ogni giorno uomo chiamato ad applicare la legge.

«Quel periodo buio ha dimostrato come non sempre le leggi, sol perché tali, sono giuste. La giustizia non è sempre giusta, dunque? Domanda che mi pongo quotidianamente nel lavoro che svolgo. Certamente essa in passato si è prestata ad essere espressione di leggi razziali e, quindi, a essere spada e strumento di discriminazione».

La giustizia non sempre giusta e la memoria non sempre utile. Due dilemmi rispetto ai quali l’umanità deve dare, con scelte di coscienza, risposte chiare. Risposte chiare e corroboranti piuttosto una giustizia giusta e una memoria viva. Questa la tensione auspicabile in ogni tempo. Aspetto sul quale si è soffermato anche Paolo Rumiz, viaggiatore e scrittore che nella prefazione del libro scrive: «(…) Salvati fa dire al personaggio forse più drammatico del libro, l’avvocatessa Julia Küstlinger Presser, che è inutile ricordare, non serve a nulla raccontare: perché ci sono e ci saranno sempre Pentcho carichi di disperazione pronti a partire. Facile e triste profezia.

Resta poi, alla fine ma prima di tutto, il dramma di chi fugge, e il dubbio su cosa provochi più sofferenza nei profughi del Pentcho di ieri e di oggi. Secondo me, è lo svelamento dell’essenza dell’umano. La scoperta che non c’è niente di più umano della disumanità. E questo anche se, per incredibile paradosso, è proprio la violenza, la paura, l’umiliazione a portarti all’essenza di te stesso e a mobilitare forze che non sapevi di avere. Perché, a mio avviso, il vero coraggio è quello che nasce non dalla speranza ma proprio dalla disperazione e dal superamento della paura. E il Pentcho -conclude Paolo Rumiz – ne è la prova».

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