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NOI NON DIMENTICHIAMO | Peppe Valarioti, la forza degli ideali e l’intransigenza morale

Il giovane dirigente comunista di Rosarno, strenuo oppositore della ‘ndrangheta, nel ricordo del compagno di partito Giuseppe Lavorato e della fidanzata Carmela Ferro

NOI NON DIMENTICHIAMO | Peppe Valarioti, la forza degli ideali e l’intransigenza morale

«La nostra lotta era durissima. Nelle piazze come nei quartieri, sempre a viso aperto contro i mafiosi. Quella campagna elettorale, in particolare, era stata osteggiata. Così la stessa notte bruciarono la mia auto e la sezione del partito comunista. Poi le parole di Peppe, il suo grido di ribellione e di libertà quando disse che noi comunisti non ci saremmo piegati.

Era vero, non ci piegammo e vincemmo quelle elezioni. Lo ricordo bene quel giorno. Una contentezza grande ci fu data dai voti di tanti giovani, dei braccianti, delle raccoglitrici di olive, dei cittadini perbene. Voti sottratti ai mafiosi. Ma quella gioia fu affogata nel sangue e nel dolore. Ricordo bene anche quel momento. Ero a due metri da Peppe quando gli spararono. Lui gridò. Quei colpi di lupara lo raggiunsero con violenza. Istantaneo fu il nostro soccorso ma vana la nostra corsa in ospedale».

Questo il ricordo di Giuseppe Lavorato, all’epoca militante del Pci, deputato dal 1987 al 1992 e sindaco di Rosarno dal 1994 e il 2003, ma soprattutto amico di Giuseppe Valarioti. Questo il suo ricordo di quanto accadde al giovane e coraggioso dirigente del Pci di Rosarno, fuori dalla trattoria di Nicotera dove con i compagni era andato a festeggiare la vittoria del partito nel suo paese. Era la notte tra il 10 e l’11 giugno del 1980. Di Peppe, così lo chiama, Giuseppe Lavorato, conserva ancora un ricordo vivo e intenso.

«Peppe difendeva e diffondeva la libertà»

Aveva appena solo trent’anni, Peppe Valarioti, quando fu ucciso da mano ignota ma certamente mafiosa.

«Lo gridammo subito, lo scrivemmo subito che quello era stato un delitto politico mafioso. Il giovane e brillante professore, segretario della sezione rosarnese del partito comunista, consigliere comunale, difendeva e diffondeva la libertà senza risparmiarsi. Forse fummo imprudenti nella nostra urgenza di fare qualcosa in quella Piana dove i Piromalli rubavano tutto, i voti e i figli. In quella Piana dove, tranne Mommo Tripodi a Polistena, i sindaci negavano la presenza della ‘ndrangheta. Qui dove c’era da contrastare lo strapotere mafioso che si imponeva nel mondo delle opere pubbliche come in quello del lavoro, aggravando le disuguaglianze, dove c’erano da denunciare le collusioni e le connivenze, Peppe con tutti noi era in prima linea. Poi quella sera la mafia ordinò ed eseguì il delitto perché la paura, che stava cedendo il posto al vento di libertà, andava ristabilita», ha raccontato ancora Giuseppe Lavorato.

L’occasione di questo accorato ricordo è stata la presentazione de “L’utopia di un intellettuale. Giuseppe Valarioti (Rosarno, 1950 – Nicotera, 1980)”, edito da Città del Sole e scritto dall’amico e compagno di Giuseppe Valarioti, Rocco Lentini, svoltasi a Reggio Calabria lo scorso anno. Il saggio del giornalista e storico di Rizziconi, presidente dell’istituto Ugo Arcuri per la Storia Contemporanea e dell’Antifascismo in Calabria riaccende i riflettori su una storia tutt’altro che solo calabrese, su un intellettuale brillante e rigoroso, su un politico integerrimo e incorruttibile.

La libertà che fa paura alla ‘ndrangheta

A Rosarno l’opera del partito comunista coincideva con un’azione di fermo contrasto e ostinata opposizione civile alla ‘ndrangheta. Forti erano le rivendicazioni del lavoro e dei diritti essenziali. Irriducibile l’impegno di denuncia del malaffare e delle ingiustizie sociali generate dalle angherie della criminalità mafiosa e da un sistema di compiacenze e connivenze.

Ecco la valenza sociale di quel risultato elettorale. In quella tornata furono eletti sia il candidato da loro proposto per il consiglio regionale che il candidato per il consiglio provinciale. Un risultato che mosse la mano criminale del primo delitto politico mafioso consumatosi in Calabria.

Un epilogo tragico seguito ad una campagna elettorale segnata da numerosi episodi intimidatori, manifesti elettorali capovolti e minacce.

Il primo dei delitti politico-mafiosi in Calabria

Solo dieci giorni dopo, il 21 giugno 1980, fu ucciso anche l’assessore di Cetraro nel cosentino, oltre che segretario generale della Procura di Paola, Giovanni Losardo. Già il 10 dicembre 1976 era stato ucciso a Cittanova, Francesco detto Ciccio Vinci, appena diciottenne, leader studentesco e attivista politico della Fgci. Lo stesso destino attese il 12 marzo 1977 Rocco Gatto, il mugnaio rosso di Gioiosa Ionica. La storia di Peppe Valarioti e degli altri è raccontata anche nel volume di Danilo Chirico e Alessio Magro “Il caso Valarioti. Rosarno 1980: così la n’drangheta uccise un politico (onesto) e diventò padrona della Calabria. Un processo a metà” (Round Robin Editrice, 2012).

Un enorme debito di riconoscenza

«La storia di Peppe non deve essere dimenticata. La sua carica ideale era straordinaria e, con la sua scelta di restare qui, Peppe aveva deciso di dare anima e corpo per una Calabria libera e giusta. Ha dato la vita per questo e noi tutti abbiamo verso di lui un enorme debito di riconoscenza».

Ne è convinta Carmela Ferro, oggi una docente di lettere in pensione, all’epoca fidanzata con Peppe Valarioti. Lei residente a San Ferdinando, Peppe a Rosarno. Non si vedevano tutti i giorni e quel 10 giugno 1980, Peppe le aveva telefonato promettendole che il giorno dopo sarebbe andato a prenderla per trascorrere la giornata insieme. Quella promessa fu infranta dalla violenza mafiosa.

Oggi Carmela è fervida testimone, soprattutto nelle scuole, della passione civile di Peppe Valarioti di cui conserva un ricordo bellissimo.

Il dovere del racconto e della memoria

«Per trent’anni c’è stato il vuoto intorno a noi. Eppure un giovane di trent’anni era stato ucciso per difendere la libertà dalla ‘ndrangheta e la giustizia in Calabria. Il suo sacrificio era stato ripagato con il silenzio. Sono contenta che dopo l’isolamento in cui sono stati lasciati i familiari a seguito della morte di Peppe, negli ultimi dieci anni si stia parlando di lui. Si stia raccontando della sua storia, la sua morte ancora impunita ma soprattutto la sua vita così piena di interessi e animata da una grande forza ideale», sottolinea ancora Carmela Ferro.

«Sventurata la società che non conosce o dimentica…»

«Con il sostegno del presidio di Libera Palmi anche io ho iniziato l’anno scorso a raccontare. È doveroso farlo. Credo che tanti giovani potrebbero ispirarsi alla sua ricchezza di ideali e all’amore per la sua Calabria, alla sua voglia di cambiamento in una terra oppressa dalla ‘ndrangheta. Nel quartiere delle “case nuove”, come veniva chiamato quello in cui lui viveva, i mafiosi li aveva alla porta accanto. Nemmeno a 100 passi come Peppino Impastato. Bertold Brecht diceva “Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Mi permetto di affermare che sventurata è anche la società che gli eroi li ha ma non li conosce, li dimentica o li vuole dimenticare», sottolinea ancora Carmela Ferro.

Classe 1950, diplomatosi al liceo classico Nicola Pizi di Palmi, laureatosi in Lettere Classiche all’università di Messina, Giuseppe Valarioti era professore di Lettere al liceo scientifico Raffaele Piria di Rosarno. Appassionato di studi archeologici dell’antica Medma, aveva una mente arguta e brillante. «Con i suoi trent’anni, aveva davanti a sé una vita che avrebbe continuato a mettere al servizio, facendo la differenza», afferma Carmela Ferro.

L’impegno e la denuncia

Di lui resta moltissimo. La sua incorruttibilità, la sua integrità, la sua onestà intellettuale, il suo impegno contro il malaffare politico – mafioso contro la pervicace e incontrastata infiltrazione della ndrangheta nelle attività economiche e produttive della Piana di Gioia Tauro. Un’infiltrazione che non aveva lasciato fuori la cooperativa Rinascita di Rosarno, una delle prime esperienze associazionistiche nel settore della produzione e della trasformazione agrumicola rosarnese. Nel momento in cui lo capì ed era pronto a denunciare, divenne inviso al punto da dover essere eliminato.

Le arance di carta

Aveva capito che le arance destinate al macero, da cui dipendeva la quantificazione della somma che la stessa cooperativa avrebbe dovuto ricevere a titolo di integrazione da parte dell’Azienda statale per gli interventi sul mercato agricolo (Aima, poi sostituita dall’Agenzia per le erogazioni nell’agricoltura, Agea) venivano pesate più e più volte. Un meccanismo per far levitare le somme e così truffare lo Stato. Le cosiddette arance di carta. Valarioti aveva scoperto che alcuni compagni di partito, compiacenti o intimiditi, avevano ceduto lasciando infiltrare la ‘ndrangheta.

Il rigore morale

«Peppe mi aveva parlato di queste truffe, di queste infiltrazioni. Sono certa che dopo quel confronto con i compagni di partito, avrebbe certamente denunciato tutto alla magistratura. Un’intenzione di cui non mi ha mai detto apertamente, ma conoscendo il suo rigore morale e l’intransigenza con cui si sarebbe rapportato con tutti allo stesso modo, e quindi anche con i suoi colleghi di partito, non ho dubbi che lo avrebbe fatto», sottolinea Carmela Ferro.

Un delitto impunito

Tra le righe di questa storia così limpida e per questo insidiosa per chi viva nell’ombra e nell’ambiguità, sono da rinvenire i moventi di una morte rimasta impunita. Una verità negata legata alle verità scomode che Peppe Valarioti stava denunciando dentro il suo stesso partito. Lo stesso che aveva scelto di servire per estirpare quei comportamenti che adesso vedeva posti in essere. Una figura che, per integrità e rigore, diventava un ostacolo al malaffare che serpeggiava anche dentro la cooperativa.

Un processo e un pentito

Un processo ebbe inizio nel 1982 a Palmi e vide imputato il capobastone di Rosarno, Giuseppe Pesce. Solo prove indiziarie e una sentenza di assoluzione della corte di Assise di Palmi che non si fece attendere. Poi le dichiarazioni del pentito della ndrangheta, Pino Scriva, uno dei capi storici della mafia di Rosarno che nel 1984 imputò a Giuseppe Pesce, già assolto qualche anno prima, la qualità di mandante del delitto Valarioti.

I boss della zona erano disturbati dalla presenza di questo giovane coraggioso che denunciava pubblicamente il lassismo diffuso e la tolleranza verso la tracotanza mafiosa nello stesso contesto storico in cui, in un’altra regione, qualche anno prima lo aveva fatto Peppino Impastato. Secondo le dichiarazioni di Pino Scriva, Valarioti non era inviso solo ai mafiosi ma anche a esponenti del suo partito che il giovane sapeva contigui, vicini per convenienza ad ambienti mafiosi ai quali ricorrevano per manovalanza, automezzi, favori. Una connivenza che lo stesso giovane, era pronto a denunciare apertamente. Un’intenzione che avrebbe gettato ombre su molte cooperative rosse operanti nella piana di Gioia Tauro. Una ricostruzione che ancora oggi fa discutere e divide.

Nessuna giustizia per Peppe Valarioti

Un’integrità per lui naturale e necessaria e per altri scomoda e fastidiosa. Una voce che, secondo quanto riferito da Scriva, sarebbe stata messa a tacere con la complicità di suoi presunti amici, colleghi di partito che avrebbero favorito l’agguato mortale. Nonostante tale ricostruzione molto dettagliata, l’attendibilità di Scriva fu minata al punto che alcuna istruttoria bis ebbe luogo e il tutto si esaurì in un’archiviazione alcuni anni dopo. Da allora, nonostante iniziative spontanee di associazioni e cittadinanza, nessun passo fuori dal buio è stato compiuto.

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