Reggio, Maysoon ritrova la libertà e la forza: «Adesso verità e giustizia sulla mia storia» – VIDEO
La giovane attivista curdo-iraniana sta trascorrendo in riva allo Stretto questi primi giorni successivi alla scarcerazione. Il prossimo 27 novembre la prossima udienza a Crotone e intanto si lavora all’istanza per il riconoscimento della protezione internazionale. Ecco la sua testimonianza

Occhi scuri, grandi e luminosi come il suo sorriso. Ci accoglie così Maysoon Majidi, tornata in libertà solo qualche giorno fa. La giovane attivista curdo-iraniana, sbarcata a Crotone lo scorso 31 dicembre, era stata subito tradotta prima nel carcere di Castrovillari poi in quello di Reggio, con l’accusa di essere una scafista.
I segni di una detenzione lunga e faticosa, vissuta come ingiusta, ci sono tutti ma la libertà ritrovata lascia prevalere una cauta speranza. Il suo corpo è gracile e debilitato ma in esso vive uno spirito combattivo pronto ad affermare verità e giustizia sulla sua storia e su quella del suo popolo nel tormentato Kurdistan, silente in Europa.
È stata scarcerata martedì, dopo quasi 10 mesi di detenzione, dal tribunale di Crotone che la sta giudicando e dinnanzi al quale si è sempre proclamata innocente.
Difesa dall’avvocato Giancarlo Liberati, la giovane, adesso a Reggio Calabria, molto dimagrita e che ancora fatica a dormire serenamente, dà fondo a tutte le sue energie per affermare di essere una migrante per motivi politici e non economici e di non essere una scafista.
Manifesta, altresì, l’urgenza di raccontare cosa abbia lasciato dietro di sé, quando per lei e per il fratello Razhan la militanza in favore della causa di libertà e indipendenza da Iran, Iraq, Turchia e Siria del popolo curdo, il loro popolo, stava mettendo a repentaglio la loro vita.
Un’urgenza che nasce dalla necessità di avere una voce nel paese in cui è arrivata in fuga dal proprio, dieci mesi fa e di cui ha finora conosciuto solo il carcere. Nel paese, quale l’Italia, in cui cercava sicurezza e protezione negate in Iran e nel Kurdistan iracheno dove negli ultimi anni era stata, è stata invece accusata di avere tratto profitto da una traversata pericolosa in cui anche lei, come gli altri migranti, ha rischiato di non sopravvivere.
«Il processo nel merito – spiega l’avvocato Giancarlo Liberati – è stato aggiornato al prossimo 27 novembre. Parlerà Maysoon, poi la requisitoria, la discussione e la sentenza. Possiamo essere ottimisti sull’esito, alla luce della scarcerazione in udienza dello scorso martedì. In attesa della sentenza, possiamo intanto procedere, e lo stiamo facendo, con la richiesta di protezione internazionale per Maysoon. Stiamo inviando l’istanza alla commissione territoriale di Crotone. Chiaramente Maysoon non è una migrante economica. Per altro, lei non lo ha mai sostenuto. Ci troviamo di fronte ad una persona in fuga dal suo paese perché perseguitata politica. Confido che il processo si concluda con il riconoscimento della sua completa innocenza». Così l’avvocato Giancarlo Liberati.
Il racconto di Maysoon è generoso e rivela tutta l’urgenza di essere ascoltata.
Cinque giorni e quattro notti in mare
«È stata una esperienza terribile. Abbiamo viaggiato per cinque giorni e quattro notti. Senza toilette. Sono sbarcata il 31 dicembre e fino al 6 gennaio, in cella, stavo seduta e ancora pativo la sensazione di essere in viaggio, sul mare che faceva ondulare la barca. Nei mesi di detenzioni – racconta Maysoon – ho molto sofferto per quello che sentivo dire e leggevo sul mio conto. Io avrei dato ordini sulla barca e consegnato acqua e cibo. Nulla di più falso. Se certamente ci fosse stata la possibilità, avrei aiutato qualcuno ma non è questo il punto. Noi avevamo i nostri zaini con viveri e acqua. Nessuno dava niente ad alcuno. Dunque bugie su bugie ho sentito e ciò mi ferisce ancora oggi molto.
Il mio malessere si ripercuoteva sul sonno. Non riuscivo a dormire e per questo assumevo dei farmaci. Ora ho smesso, anche se ancora non riesco a riposare, pur avendone tanto bisogno.
Mi facevano male quelle parole. Per questo adesso la verità deve venire fuori e deve avere voce.
Non avrei mai pensato un giorno di sarei costretta a partire per preservare la mia vita. Ma così è stato. Appena scarcerata – racconta ancora Maysoon Majidi – ho cercato di contattare alcuni miei colleghi. Oltre dieci sono stati uccisi mentre io ero detenuta in Italia. Questa è la situazione dalla quale io e Razhan siamo scappati. Mentre cercavo un posto sicuro, qui in Italia mi sono imbattuta nel carcere dove ho perso un anno della mia vita. Nessuno mi restituirà mai questo anno in cui a tenermi in vita è stata certamente la volontà di vivere abbastanza per affermare la verità sulla mia storia. Mi sono state di conforto le oltre 400 lettere che ho ricevuto da tutta Europa in cui persone che non conosco mi hanno dato coraggio e manifestato vicinanza. Anche la poesia, il disegno e le parole con cui ho raccontato la mia esperienza su un diario mi hanno sostenuta. Adesso voglio essere libera ma devo aspettare la fine del processo per sentirmi completamente tale».
«Non sono una migrante economica ma una rifugiata politica»
Molto lucida, Maysoon è consapevole che occorre tenere i piedi per terra e non volare troppo in alto, nonostante la scarcerazione. Il processo è in corso e la sentenza non è stata ancora pronunciata. «Procedo passo dopo passo perché il mio caso non è ancora concluso. Tra un mese ci sarà la prossima udienza. Naturalmente sono contenta e felice di essere fuori dal carcere, seppure molto stanca, ma sono anche preoccupata. Per me è importante adesso dire la verità sulla mia vita e sulla mia storia affinché sia affermata e conosciuta. Non sono una migrante economica. Non ho lasciato il mio paese per migliorare la mia vita ma per continuare ad averne una. Cercavo solo un posto sicuro in cui essere riconosciuta rifugiata politica. Ho pagato oltre 50 mila euro, insieme al mio adorato fratello per partire. Ho lasciato la mia terra ma il mio sogno più grande, al quale dedicare ogni energia, resta sempre quello di un Kurdistan finalmente libero. Questo deve essere chiaro.
Giustizia, verità e libertà – sottolinea con forza la giovane attivista curdo-iraniana – sono essenziali per me come per ogni essere umano. Dunque è importante essere tutti e in ogni luogo impegnati per il rispetto dei diritti umani. In carcere ho conosciuto tante persone, ho ascoltato tante storie e ho toccato il dolore di tante famiglie. Per la libertà delle persone e il rispetto dei loro diritti occorre fare qualcosa. È importante perché la libertà è il bene più prezioso. Per me è tutto: è la vita, l’aria, l’ossigeno. Non si può vivere senza».
«Nella storia antica del popolo curdo, l’unica chiave per un futuro»
Maysoon ha compiuto 28 anni in carcere e adesso, stanca ma felice, mantiene il suo sguardo aperto sul mondo e sulle tante ingiustizie che ci sono. In questa fase sa bene che occorre una sentenza di assoluzione prima che lei possa ricominciare a pensare davvero al suo futuro. Un futuro che resta ancorato alle sue radici, alla sua storia e alla sua identità di giovane donna curda senza uno Stato in cui sentirsi libera e al sicuro.
Un paese sicuro finora non è stato neppure l’Italia. Ironia della sorte, i colori della bandiera italiana sono gli stessi di quelle del denegato stato del Kurdistan. In quest’ultima c’è però un sole che splende al centro. L’unico braccialetto che porta al suo esile polso è proprio quello con i colori della bandiera della sua Patria. Anche questo un gesto fortemente politico.
«La mia militanza, un pericolo per la mia vita»
«Siamo osteggiati e contrastati da tutti i fronti. L’assimilazione di cui vorrebbero renderci vittime ha lo scopo di privarci di una lingua nostra, di una identità, di una storia che invece è antica e che riguarda un popolo di milioni di persone. Noi intendiamo resistere. Io e mio fratello – racconta ancora Maysoon Majidi – eravamo militanti in un partito molto esposto contro il governo iraniano per questo nel 2019 abbiamo lasciato la nostra famiglia e siamo andati nel Kurdistan iracheno. Abbiamo continuato a manifestare, a documentare e a dare voce sui social alla rivendicazione dello Stato Curdo fino a quando ci siamo resi conto che rischiavamo di essere uccisi per strada, da coloro che portavano avanti la cosiddetta “operazione di neutralizzazione dei combattenti”. L’impegno nell’organizzazione dei diritti umani Hana, nel coordinamento dei Curdi in diaspora e le tante attività a difesa dei diritti delle donne e delle nazioni sottomesse ci aveva molto esposti. Per questo siamo dovuti partire. Noi volevamo e vogliamo solo riprenderci la nostra terra. Il nostro sogno più grande resta il Kurdistan libero». Così conclude la giovane attivista curdo-iraniana Maysoon Majidi.